Negli stessi giorni in cui ancora una volta il Mar Mediterraneo inghiottiva decine di innocenti davanti le coste di Lampedusa e nel Mare Jonio, nelle campagne di Latina un lavoratore bracciante moriva dopo essere stato abbandonato dal proprio datore di lavoro sulla strada dopo un incidente gravissimo nel quale aveva subito l’amputazione del braccio per opera di un macchinario agricolo.
In apparenza questi fatti possono essere scollegati tra loro, ma nella realtà sono incardinati da una logica profonda. Almeno questo è quello che viene da pensare se colleghiamo il tema della degradazione dei diritti e della dignità dei migranti che provocano le leggi che regolano il fenomeno migratorio con le forme di sfruttamento intensivo che nei luoghi di lavoro colpiscono maggiormente i lavoratori migranti. Segnalo in questo senso il comunicato che la comunità indiana del Lazio ha pubblicato dopo la morte di Satnam Singh, nel quale si evince in maniera abbastanza evidente il fatto che esiste un legame tra il tema della libertà di movimento e lo sfruttamento intensivo che subiscono i lavoratori e le lavoratrici migranti. Scrive la comunità indiana del Lazio nel suo comunicato: “Tutte le manifestazioni effettuate negli anni precedenti contro lo sfruttamento dei nostri fratelli che lavorano in agricoltura, insieme a quelle in cui abbiamo manifestato contro politiche immigratorie che non danno nessuna risposta alle nostre necessità insieme al ritardo e/o il mancato rilascio di un permesso di soggiorno, sono da sempre state considerate da parte nostra come il primo passo verso lo sfruttamento”.
Del resto, è proprio il soggetto che vive sulla propria pelle gli effetti che producono le politiche dei governi che ha più di tutti chiaro quale sia il problema che si dovrebbe affrontare.
Potremmo sostenere, leggendo queste righe, che esistono due grandi linee normative che intervengono limitando i diritti dei lavoratori migranti, l’impianto normativo sulle leggi sulla cittadinanza determinato dalla Bossi-Fini e quello sul lavoro determinato dal Jobs act.
Mi rendo perfettamente conto che il combinato disposto di queste due leggi non è in grado di spiegare la complessità dentro la quale queste tragedie si sono originate, che lo sviluppo delle forze produttive abbia portato in sé molte ed altre questioni più complesse che influiscono su questa vicenda è ben chiaro per chi scrive, pur tuttavia queste due leggi possono in qualche modo fornirci degli elementi su cui riflettere come se fossero la cornice di fondo per inquadrare il fenomeno che analizziamo. Sappiamo benissimo infatti che se le persone potessero viaggiare liberamente come noi occidentali sopra le frontiere non prenderebbero la via rischiosa del mare ed arriverebbero nel nostro paese senza rischiare la vita e con piena dignità. Con le valigie in mano e non scalze come profughi. Ma nel mondo globalizzato, dove le merci possono viaggiare senza troppi problemi, gli individui poveri, i subalterni che si spostano per cercare un salario migliore non hanno la stessa libertà degli imprenditori. Il loro viaggio è segnato dalle leggi delle frontiere che operano costantemente per renderli lavoratori e lavoratrici vulnerabili senza potere di difesa. Nel mondo globalizzato sono le imprese che hanno libertà di movimento per aprire produzioni dove gli è più conveniente, non i lavoratori e le lavoratrici che cercano una vita migliore.
Quello che dovremmo quindi chiederci è come sia possibile che in Italia la condizione materiale di vita dei lavoratori migranti possano essere ridotta a livelli di barbarie come è avvenuto nelle campagne del Lazio nel giugno 2024. E capire quanto leggi sul lavoro e sull’immigrazione incidano su questa dinamica. Ovvero quanto le leggi che hanno flessibilizzato e frammentato i diritti dei lavoratori incidano nelle condizioni dei lavoratori migranti che nella maggioranza dei casi sono costretti a dover accettare ogni mansione e salario perché il loro permesso di soggiorno è legato al contratto di lavoro.
Da più di dieci anni mi occupo quotidianamente di frontiere e lavoro migrante, in particolare mi occupo di lavoro migrante nelle campagne del sud Italia, dove da circa due anni siamo riusciti ad aprire un ostello per lavoratori braccianti mobili che prevalentemente raccolgono arance e clementine nella Piana di Gioia Tauro.
La struttura di accoglienza nella quale lavoro, gestita dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI), funziona con una pratica di mutuo appoggio che cerca di raggiungere una sostenibilità economica autonoma. Il costo degli appartamenti viene sostenuto da una quota economica donata dai lavoratori braccianti e da una quota economica proveniente dalle arance e delle clementine vendute ad un prezzo equo dalla cooperativa “Mani a Terra” e Sos Rosarno. I prodotti sono venduti nelle reti di economia solidale sganciate dalla Grande Distribuzione Organizzata.
Nel complesso nei nostri 15 appartamenti riusciamo ad accogliere 50 persone durante la stagione invernale, mentre circa 80 persone transitano nelle nostre strutture durante l’anno. Questo lavoro di vicinanza e di inchiesta nelle condizioni del lavoro migrante in una delle zone più complesse del nostro paese mi permette di avere una visione abbastanza articolata delle condizioni del lavoro e di vita di queste persone.
Il primo punto sul quale vorrei riflettere è legato al tempo di vita di questi lavoratori. La vita di un lavoratore migrante nella campagna italiana è una vita senza il tempo per progettare il proprio futuro, sia nella quotidianità che nella progettazione del proprio progetto migratorio. Il ritmo dei tempi di lavoro nel quale deve essere considerato anche lo spostamento per raggiungere i campi, spesso in bicicletta, si integra ai tempi imposti dal rinnovo del permesso di soggiorno, e quindi dall’esigenza di avere un contratto di lavoro. La continua rincorsa per i permessi di soggiorno costringe i lavoratori braccianti a una progettazione dei tempi di vita di breve respiro, nei quali quello che conta è cercare di ottenere un contratto, spesso senza informarsi troppo sul rispetto delle sue clausole, perché senza quel foglio si rischia di diventare clandestini. La gestione del tempo di vita di queste persone è quindi limitata al breve termine e molto spesso non è nelle loro mani, ma in quelle del sistema che li considera di fatto cittadini a tempo determinato.
Il secondo elemento su cui riflettere è lo spazio. Lo spazio dove sono collocate le persone che lavorano nelle campagne in Italia è uno spazio che in qualche modo costruisce un processo di invisibilità di questi lavoratori, che li annulla. Da decenni i lavoratori braccianti vengono collocati in grandi campi concentrazionari che diventano degli uffici per l’impiego informali dove le imprese possono andare a trovare forza lavoro in nero o in grigio. Se non vivono dentro i campi, i lavoratori finiscono per scomparire nei casolari, in un modello dentro il quale l’impresa ha la possibilità del doppio ricatto, ovvero quello di poter licenziare il lavoratore e al tempo stesso togliergli la casa. In entrambi i casi questi lavoratori sono sottoposti ad un processo di razzializzazione che ne impedisce qualsiasi processo di visibilità sociale. Essi non hanno nessuna libertà di vivere socialmente lo spazio in cui abitano e tutto è legato al fatto che occorre avere un contratto di lavoro.
I braccianti di Di Vittorio stavano al centro della piazza del paese, avevano una relazione con il territorio e reti di appoggio familiari e amicali, potevano votare e sindacalizzarsi perché avevano un’appartenenza comune come soggetto sociale. I braccianti e le braccianti degli anni ‘50 avevano davanti a loro un quadro normativo sicuramente più arretrato di quello attuale, ma al tempo stesso avevano molto più potere di difesa davanti ai processi di sfruttamento.
Non avevano addosso il peso della frontiera che li rendeva un problema di ordine pubblico, né leggi che li frammentavano in una marea di contratti, né problemi di lingua, e permettetemi di dirlo, nemmeno sindacati che avevano abbandonato completamente il terreno della lotta salariale e l’organizzazione dei lavoratori. Dovremmo quindi chiederci come sia stato possibile che, pur avendo un quadro normativo più avanzato in termini generali rispetto al secolo scorso sia stato possibile che un lavoratore bracciante sia stato abbandonato, morente, sul bordo della strada come un oggetto rotto in una discarica. Questa vicenda nella sua drammaticità ha portato alla luce una condizione generale che riguarda i lavoratori migranti in Italia, che più di tutti subiscono gli effetti di una degradazione complessiva dei diritti del lavoro.
Per gli stranieri, infatti, il rischio di rimanere vittima di un incidente mortale è più che doppio rispetto agli italiani. L’incidenza infortunistica per i lavoratori migranti è di molto superiore alla media nazionale. Un dato che va letto quindi sia considerando la mancata informazione sui rischi sul lavoro, ma anche i ritmi di lavoro imposti, le condizioni di lavoro, la condizione sociale di questi lavoratori.
Influisce in questa dinamica il processo di invisibilizzazione e di allontanamento di questi lavoratori dai contesti cittadini?
Si, influisce anche questo, e dovremmo chiederci come sia possibile che in Italia dopo 40 anni di politiche dell’emergenza dispendiose non si sia ancora sviluppata una strategia legata alla politica dell’abitare che contempla l’accesso ai diritti dei lavoratori migranti delle nostre campagne. Siamo ancora dentro la politica dei ghetti di stato, dei container, dei moduli abitativi, e tendopoli. Siamo dentro una progettazione per bandi che poi puntualmente, alla scadenza del progetto riparte dal punto di partenza, e chi viveva nel container perché viveva nel ghetto torna a vivere nuovamente nel medesimo ghetto.
Una volta il mio collega di lavoro Ibrahim Diabate, poeta, ex bracciante, mi ha detto una cosa che mi ha fatto profondamente riflettere: “Fino a quando ci colonizzerete noi verremo a chiedervi di avere una parte della ricchezza”.
Questo è un tema serissimo, perché questo venire vuol dire che esiste un legame tra colonialismo, frontiere occidentali, sfruttamento nel mondo grande e terribile della globalizzazione. Bossi-Fini e Jobs act sono quindi due normative figlie della globalizzazione liberista che nascono in simbiosi e sono le due norme che dovremmo mettere sul banco degli imputati rispetto alla vicenda, ma dovremmo dire alle vicende, che drammaticamente si stratificano tragedie dopo tragedia, in terra ed in mare. Potremmo quindi sostenere che fino a quando sarà negata la libertà di movimento avremo sfruttamento. Il tema centrale dal mio punto di vista è quello di riequilibrare il rapporto di potere tra imprese e lavoratori. Possiamo infatti dire che nelle campagne ci vogliono più ispettori del lavoro, ma se i lavoratori non hanno il potere di difendersi perché la legge li rende vulnerabili, non saranno mai sufficienti. Possiamo giustamente pretendere e rivendicare che i permessi speciali vadano trasformati velocemente in permessi di lavoro, ma fino a quando la libertà di movimento sarà negata non potremmo mai parlare di dignità dei lavoratori. Si fa strada allora la richiesta, per certi aspetti visionaria, come lo era quella delle 8 ore lavorative, di iniziare a legare la libertà di movimento con la rivendicazione di un salario minimo al quale legare le politiche dell’abitare. Ovvero l’idea di prendere in mano il tema della mobilità non semplicemente nel suo tecnicismo umanitario che riconduce tutto ad una categoria, come quella del richiedente asilo, ma come rivendicazione politica generale, ovvero come diritto inalienabile di ogni lavoratore e lavoratrice collegato ad un pacchetto di diritti sociali da rivendicare di fronte alle catene del valore e agli stati nazione.
I lavoratori migranti non sono utili per la nostra economia, non sono un problema di ordine pubblico. Sono essere umani che devono vivere nel diritto e nella libertà, vivere con la nostra stessa dignità. Nel nostro piccolo, ad esempio, stiamo costruendo una campagna nella zona di Gioia Tauro per chiedere alla filiera agricola di contribuire direttamente all’accoglienza degna dei lavoratori braccianti con una tassa di scopo di un centesimo al kg, per contribuire ad un fondo che permetta lo sviluppo di politiche dell’abitare e dei trasporti pubblici. È una proposta che va nella direzione che ho cercato di descrivere, perché lega il tema dell’accoglienza alla responsabilità sociale di una filiera agricola che ha usato, ed usa, il lavoro migrante come unica variabile per reggere la competitività dei prezzi.
Quel sottocosto che vediamo pubblicizzato nei banconi dei supermercati della Grande distribuzione Organizzata ha però un sopra costo sociale che vediamo solo quando il livello di violenza che subiscono questi lavoratori tracima in su