“Saremo l’inferno che ci state lasciando”

Tocchi a sforzo con la pianta la terra.
Sotto scialbi filari di cemento
si annida il delirio di agosto, e va via:
con semplicità. Così i colori qui
dinnanzi si separano viaggiando
in qualcosa d’irriconoscibile;
il viso di un altro giorno ignoto
da fraintendere. E senza croci s’apre
il gesto da lontano di un arbusto
spoglio, un albero, uno sfiorito ramo.
Si spezza il cieco sguardo al primo cenno.

*
È un corpo che si sostiene appena
questo che cammina: è sostenuto
dal suo stesso nome, dall’aria che lo
chiama; non conosce altro che la linea
che lo forma e lo segue sulla terra.
Senz’altro c’è da chiedersi se lento
incede e con affanno, e verso dove;
se avanza per davvero o perso passa
nei pochi luoghi di un ricordo solo.

*
L’abbaglio trovato vivo al ricordo
è una riva da toccare, l’attimo
davvero in cui confondersi di nuovo;
e allora sia, non smetta questa voce
il suo saluto al mondo conosciuto,
al retrocedere continuo di ciò
che era stato intero e mai più cercato.

*
E’ un momento, non qui: stare
in un verbo raccolto al margine,
scivolato su figure poi sfocate
nel risveglio. L’inganno si risolve
in forme solo accennate, consolazione
per quanto è stato perso in altri luoghi.

*
In gridi è sparso il mare che cerchiamo,
come l’istante che capiamo essere
cresciuto troppo in fretta: nulla sono
anche le strade uscite fuori da occhi
sconosciuti, la luce che le illumina
è vera solo dietro a chi la vede,
riflessa da qualche vetro di finestra,
visioni uguali al suo presente e lì predetta.

*
Di ciò che un giorno c’era non dice più
la cenere di troppo, né le stesse
attese che già allora ci parlavano:
a reagire era poco più del tempo
preso di sfuggita e senza accorgersi,
il gesto anonimo che compie un verbo
concepito nella veglia. Ritorna
ora la casa che non parla, uomini
che corrono da soli e senza corpo
come a dire di restare. La realtà
esiste attraversando una parola
e il sogno dice al sogno di tacere,
come a creare apposta un ricordo nuovo.

*
L’istante prima di arrivare a riva
era la pena di un cammino senza
terra, sui fantasmi di un mito ancora
intatto da distruggere, un’idea vaga,
scritta tra le pietre e deglutita
dentro quei corpi finti e penitenti.
Era un parlare nel buio naturale
della fine, scorgendo appena il volto
di chi ancora solo resta lontano
pur girando gli occhi mentre aspetta,
raccogliendo ogni gesto che intravede.

*
Come unico argomento nell’attesa
il tremito era un tutt’uno con le cose
mosse nella polvere, lì vissute;
lo stesso spazio era schiuma incolore
nell’assenza di elementi, e l’acqua
un fumo trascinato in alto, sempre
lento nel raggiungere da solo un’altra fine.

*
Le lune erano due all’orizzonte
alto in cui pure un’estate finiva,
rimbombo immobile del pieno giorno
e ora più sgonfio, come un termine
di ieri che non riesce a ricomporsi;
è la pelle intanto ad assorbire
il lascito di un tempo che si tenta
di abitare; l’occhio un nuovo margine.

Carola Allemandi è nata il 4 Settembre 1997 a Torino dove vive.

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