SAREMO L’INFERNO CHE CI STATE LASCIANDO
Parte Seconda

C’È UNA CATASTROFE ECOLOGICA IN ARRIVO.
NESSUNO PRENDE DECISIONI PER AFFRONTARLA

Di nuovo un’affermazione perentoria sul fatto che «ci sono problemi seri», eventi dovuti a cambiamenti che riguardano l’ambiente e che sono innegabili. Data la complessità delle crisi in corso, è necessario che la politica tenga conto dei dati e delle posizioni largamente condivise dalla comunità scientifica, ossia in un ambito dove, per definizione, non ci dovrebbero essere conflitti d’interesse. Del resto gli stessi giovani cercano nell’oggettività dei dati scientifici quella base condivisa del discorso comune che consenta loro di promuovere la nuova interpretazione di una natura non è più qualcosa di inerte e separato. Purtroppo però non è così scontato che i dati sull’ecologia possano essere utilizzati per pretendere dei cambiamenti. Al pregiudizio concettuale secondo cui la natura è a nostra disposizione, si aggiunge il problema di una cultura e di una politica influenzate da un modo comunicativo “massmediatico” di affrontare le questioni, in cui tutto è suscettibile di essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti. Basta ascoltare i discorsi dei politici per rendersi conto che fluttuiamo in una sorta di logica “incoerente” che non obbedisce a nessuno dei principi aristotelici (non contraddizione e terzo escluso). La comunicazione affonda le sue radici nella struttura psichica delle masse. Come dice Perniola, in essa si può dire tutto a patto poi di negarlo, in modo tale che il comunicatore non può mai essere colto in una precisa identità ideativa1. In tutte le questioni che vengono trattate in modo comunicativo gli opposti si mescolano e si confondono, le parole si svuotano di significato, e ogni decisione è preclusa (si pensi a come nella comunicazione massmediatica i termini “guerra” e “pace” siano svuotati di significato e confusi nella decisione di inviare al contempo truppe offensive e aiuti umanitari). Di questo passo (di nuovo lo abbiamo sperimentato durante l’emergenza del covid) si sta arrivando ad un livello di insensatezza generalizzata. Quello che viene fatto fuori è l’ordine simbolico garante della significazione, ovvero ciò che consente la verifica e la prova rendendo possibile formulare giudizi universalmente condivisi.

Siamo al punto che i problemi ecosistemici hanno riflessi immediati nella vita sociale. Le sfide del presente sono diventate così grandi che la politica, incapace di rispondere, prende tempo. C’è una catastrofe, dovuta allo scollamento tra bisogni della società e finalità del sistema produttivo, che le classi dirigenti non sono state in grado di prevedere, perché non hanno saputo individuare i limiti della produzione. Per cui non sono più legittimate ad agire in nome di quella pretesa razionalità che aveva definito la modernità e con essa il senso della storia. Sugli altri pianeti la bussola della politica impazzisce e il mondo adulto non può orientarsi e orientare le nuove generazioni. Ciò che rimane è inseguire opportunisticamente l’apparentemente nuovo, nel significato di “non compromesso con il vecchio”, essendo la “novità” l’unica cosa che può dare un credito. Ma non ci può essere alcuna novità se non cambia lo spirito e con esso l’organizzazione sistemica. Di fatto è come se la società andasse avanti per inerzia, senza un traguardo, barcamenandosi a malapena, senza un’idea su ciò che sarà il futuro. In mancanza di risposte adeguate, a dilagare è la paura di perdere quel che si ha.

Qualcosa ha cominciato a muoversi – perché non è possibile negare del tutto che siamo in un altro mondo rispetto alla stagione euforica della globalizzazione -, ma si procede in ordine sparso. Le resistenze sono forti. Prendiamo ad esempio la questione della sostenibilità. È difficile modificare i modi di produzione e gli stili di consumo. Si continua a pensare esclusivamente secondo la logica privatistica dell’interesse commerciale, per cui se l’auto inquina, riconvertiamo l’intero parco auto verso una tecnologia meno inquinante. Ciò significa continuare a puntare tutto sul mercato senza promuovere un reale cambiamento delle abitudini individuali (e quindi adeguati investimenti, ad esempio, nella mobilità collettiva pubblica). Con un paradosso, si può dire che in mancanza di una trasformazione culturale profonda, rendere il mondo ecologicamente “sostenibile” rischia di essere “insostenibile”2. Ci sono tante questioni irrisolvibili entro il vecchio quadro categoriale. Non si possono risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che li ha creati. C’è la questione dei tempi che tocca interessi, posti di lavoro. C’è il problema della ridefinizione dei rapporti di potere e la distribuzione dei costi. C’è un solo modo in cui può essere affrontata la questione della sostenibilità: andare al di là della razionalità strumentale (moltiplicazione dei mezzi in rapporto a fini unicamente individuali) e incorporare individualmente quei vincoli che si trasformeranno in benefici per tutti, che ora non vengono percepiti ma che provengono dalla logica della vita nella sua complessità ecosistemica. Il pianeta Terra, che dovremmo deciderci ad abitare davvero, ha una legge: il livello di benessere immediato non può minacciare la salvaguardia futura della vita. Ponendo questioni che riguardano un fine collettivo, con la sostenibilità torna centrale la politica. Il che implica fare i conti con interessi, paure, visioni del mondo divergenti.

A mano a mano che i cambiamenti climatici causano un aumento di disastri, e con gli avvertimenti degli scienziati sul peggio che deve ancora arrivare, i giovani si trovano a fare i conti con una crescente ansia ecologica per il futuro del pianeta e delle loro vite. I sentimenti di rabbia paura e impotenza sono accresciuti dalla mancanza di volontà, o forse di capacità, da parte del mondo adulto di rimediare ai danni. Ma non è sulle reazioni psicologiche che ci concentreremo quanto sull’aspetto propriamente etico, che riguarda il come agire, ovvero come una mente ecologica può cartografare la molteplicità di forze che baluginano nel rapporto tra corpo e mondo, tenuto conto che in seguito al cambiamento catastrofico nella percezione della realtà non si può più contare sull’adesione a un sistema di valori e significati codificato. Siamo partiti dicendo che la società oggi è costretta a interrogarsi sul futuro e sui cambiamenti che l’agitano senza poter contare più su categorie metafisiche, almeno su quelle rassicuranti del passato, capaci di dare un orientamento autorevole che non sia retorico e ipocrita. Questo è vero per la società e in generale per chi è impegnato nelle professioni di cura. Dovremmo abbandonarci allora alla rassegnazione e ad un cupo pessimismo? Niente affatto.

In un’ottica psicoanalitica, l’uccisione simbolica del padre, che trova nel processo di crescita adolescenziale il suo modello originario, non è la fine dei valori, la morte dell’etica o il nichilismo3. Al contrario, può rappresentare la nascita autentica dell’etica come tensione, come ricerca che si origina dal vuoto lasciato fisiologicamente dall’autorità naturale. Il raggiungimento della maggiore età comporta la fine dell’ubbidienza ad una autorità che si autoproclama tale come fosse un fatto naturale. Ciò che resta del Padre, invece di introdurre in un’epoca dove tutto è lecito, può dar luogo tanto all’apertura etica di una disponibilità, di una vera tensione etica, quanto al fantasma regressivo e persecutorio, che si esprime in una nuova forma di pulsione sicuritaria. Dico “nuova” perché combina la spinta ad ottenere riparo dalle crisi/trasformazioni che caratterizzano il nostro tempo con una indifferenza cinica e narcisistica del comportamento individuale, come ricerca autotrofica del proprio interesse personale.

Mi si concedano dei salti interdisciplinari. Gli ecologi definiscono autotrofi gli organismi capaci di nutrirsi da soli, ricavando dal sole le sostanze di cui hanno bisogno per vivere. Se guardiamo invece la cosa dal punto di vista giuridico potremmo dire che solo gli autotrofi avrebbero il diritto di considerarsi autonomi, solo loro potrebbero rivendicare a giusto titolo un’identità e un diritto di proprietà esclusiva, poiché non dipendono da nessun altro terrestre per espletare le loro funzioni. Tutti coloro di cui invece facciamo quotidianamente esperienza (animali e persone) sono eterotrofi, poiché hanno bisogno degli altri per esistere. Non possono rivendicare in forma esclusiva nessun diritto naturale, a meno di negare ipocritamente l’esistenza dei terrestri a cui devono la loro sopravvivenza. Questo vuol dire una cosa precisa, diventata sempre più chiara nel tempo delle catastrofi: non possiamo più pensare in termini di identità, categoria che dovremmo sostituire con l’idea di sovrapposizione e sconfinamento. Il motivo è che il diritto di essere “individuale” potrebbe essere rivendicato da viventi che non si lasciano dietro alcun residuo. Non è il caso dei terrestri che a monte dipendono da ciò che permette di loro di vivere mentre a valle fanno dipendere chi viene dopo dai loro rifiuti. Lo sforzo da fare è acquisire un concetto molto più sfumato del nostro corpo4 e degli spazi interni/esterni (“bolle” immunitarie) che costruiamo come nostre protesi, incerti sui loro confini.

Dobbiamo essere capaci di autorappresentarci in termini relazionali, e pensare l’ethos umano nei termini di una etologia dei viventi, secondo il concetto deleuziano di “divenire-animale”. Questo concetto ci consente di costruire un ponte tra etica ed etologia per pensare il dialogo orizzontale tra l’essere umano e tutti gli esseri viventi, ovvero il movimento di scambio e di ibridazioni continue che avviene nei comportamenti quotidiani. In base al nuovo ethos non è più possibile concepire un’essenza pura e immutabile dell’uomo, in quanto sempre preso in processi di sconfinamento e ibridazione con le entità umane e non umane (dagli animali all’ambiente, alla tecnologia). Pur preconizzando una ibridazione tra i viventi, il concetto di divenire-animale risponde ad un’esigenza socio-emancipativa: è prima di tutto una strategia etico-politica legata al processo più generale del “divenire minoritario”, ossia il movimento che conduce a decostruire le proprie identità maggioritarie di partenza – definite dal genere, dal sesso, dalla razza, dalla specie, dalla lingua parlata etc. – per costruire alleanze in favore delle entità minoritarie emarginate, represse o subordinate a una maggioranza oppressiva. In questa tensione verso l’alterità risiede il senso contemporaneo dell’etica, in vista del corpo collettivo di una Natura intesa come incessante produzione di modi di vita e continua formazione di alleanze interspecifiche.

CI SONO PROBLEMI CHE SOLO VOI POTETE AFFRONTARE…

Una volta dal mondo giovanile ci si aspettava che manifestasse la sua intolleranza verso l’ordine delle cose, ma comunque la contestazione avveniva entro un quadro normativo condiviso. Ai giovani non si chiedeva certo un intervento palingenetico di rinnovamento. Nel nostro tempo invece sempre più spesso sono gli stessi adulti a fare appello alla loro energia, contando sul loro pensiero non compromesso con l’esistente, affinché si facciano carico di cambiamenti radicali. A fronte del radicale disorientamento attuale ciò è comprensibile, ma denota anche un senso malcelato di disperazione, e forse anche di deresponsabilizzazione. Allora mi chiedo: che forma assume l’odierna trasmissione intergenerazionale? Una forma paradossale, una sorta di trasmissione “antigenealogica” che lascia ai giovani dei mandati di azione che riflettono un’eredità negativa, per cui le azioni di cui essi si devono far carico non sono in continuità con le azioni del passato, ma sono un lascito di riparazione. Latour li chiamerebbe “Rammendatori”. Come dire: «Vi lasciamo un mondo fuori di sesto, pensateci voi». È un po’ come se i giovani fossero messi nella posizione di Amleto e l’adulto riservasse per sé la posizione del padre buono da vendicare. Sarebbe il segno di una certa impotenza a contrastare una forma dell’”abitare” che si sta dimostrando antivitale, che impedisce alla «terra» in senso heideggeriano (come “riserva di energia” di tutto ciò che cresce) di manifestarsi attraverso un mondo ad essa corrispondente.
Allo stesso tempo, si può anche pensare che gradualmente si stia creando una linea di continuità tra gli ascendenti e i discendenti, e questo sarebbe di primaria importanza se si considera che per i cambiamenti auspicati occorre il contributo, la responsabilità e l’impegno di tutti. D’altro canto c’è da rilevare un fatto tanto ovvio quanto impensato, e cioè che i ventenni di oggi avendo una prospettiva di vita lunga, hanno anche un maggior interesse a migliorare le condizioni della loro esistenza partendo dal livello di abitabilità del territorio. Il problema è che il potere è ancora saldamente nelle mani di quelle generazioni che hanno potuto sfruttare le opportunità che il passato offriva, e che per ragioni di interesse personale (conservazione delle risorse accumulate) fanno fatica a pensare che la questione della sostenibilità costituisca anche una grande opportunità per migliorare il modello di sviluppo per il futuro. Il buon vecchio senso comune non sa spiegarsi il depauperamento progressivo della classe media e vive con ansia e con paura costante le incertezze del presente. Ma paura di cosa? Le generazioni adulte hanno vissuto con un’enorme soddisfazione di sé, supportata dall’arroganza storica tipica dell’antropologia della modernità occidentale, ed ora temono di vedersi buttare fuori da quella piccola percentuale di ricchezza che le oligarchie dominanti per ora (vista la crescente rapacità) gli hanno lasciato. Non avendo modelli interpretativi collaudati per pensare soluzioni progressiste, preferiscono abbandonare la nostra Terra e trasferirsi sul pianeta Sicurezza. Questa paura chiede costantemente il capro espiatorio, che viene trovato regolarmente nella enorme massa bisognosa che preme per ottenere la sua quota di benessere, per il desiderio di possedere ciò che è vantato ovunque come il benessere occidentale. Ad ogni modo, manca un patto intergenerazionale, un’alleanza con la quale affrontare tutti insieme le sfide e gli sconvolgimenti attuali.

Il livello del “primum vivere” non può essere dissociato da quello del “deinde philosophari”, per il quale occorre un salto di piano epistemologico che comporta l’acquisizione di un’idea relazionale della vita. E poiché questo cambio di paradigma è difficile, la sostenibilità è a rischio di riduzionismo procedurale. Cosa ostacola la capacità di prendersi cura delle condizioni di vivibilità, innanzitutto ambientale?
Cosa c’è dietro a questo atteggiamento che porta a forme di negazionismo? Tanto a livello politico quanto economico, ciò che viene negato è l’interdipendenza globale, ovvero ciò che potrebbe cambiare la nostra concezione del buon vivere, della socialità, della politica e così via. Una delle ragioni per cui è così difficile convincere le persone, ad esempio, che il riscaldamento globale costituisce una minaccia reale per il futuro di un mondo vivibile, è che i loro diritti di espandere la produzione e i mercati, restano incentrati sull’accrescimento di benessere individuale. L’idea di obbligazioni globali al servizio di chiunque popoli la terra (non solo gli umani ma tutti gli esseri viventi) è profondamente antitetica alla consacrazione neoliberista dell’individualismo. Da questo punto di vista, tutti coloro che si oppongono alla economia estrattiva (per intenderci, quella finanziaria che tende a estrarre e non a produrre valore), e in particolare i giovani, devono dimostrare un certo coraggio, anche per esporre e lottare per un’idea apparentemente ingenua.

Bisogna però dire che, ad un livello più empirico, queste forme di negazionismo sono dovute anche al rischio di fortissime tensioni nella vita sociale. Dietro l’apparente consenso generale, si nascondono posizioni e interessi molto diversi, e in alcuni casi opposti: gli utopisti del cambiamento radicale, subito e a tutti i costi; i profittatori, che vedono nella sostenibilità nuove possibilità di business, senza alcun interesse per modificare lo status quo; i marginali, che si oppongono al cambiamento temendo di dover pagare costi eccessivi; i regolatori, che immaginano di risolvere i problemi introducendo controlli sempre più capillari su ogni attività; i tecnocrati, che affidano ogni soluzione alla tecnologia; i rassegnati, che pensano che ormai non ci sia più niente da fare se non prepararsi al peggio (Magatti). Tra tutti questi contrastanti interessi i giovani, più sensibili alle tematiche ambientali di quanto lo fossero le generazioni passate, pretendono di cambiare le abitudini antiambientaliste con un certo assolutismo. C’è però la questione decisiva di come organizzare il cambiamento del mondo; e una qualche organizzazione politica serve proprio a questo perché è la mediazione tra il mondo e il cambiamento del mondo.

Tra la diffusa sensazione di una latitanza della responsabilità connessa al potere, che genera quel senso di rabbiosa impotenza che è all’origine dell’antipolitica, e la reazione sovranista, che appare una sorta di risarcimento immaginario offerto ad un’umanità espropriata del potere del possibile, che atteggiamento assumere? Dove situare la virtù politica? Cercarla ancora immediatamente dal lato del possibile, ovvero con l’evocazione diretta di un altro mondo possibile, vuol dire rifugiarsi nell’illusione che ha generato la patologia. Del resto la sovranità è evaporata come il Nomos del padre. Un tempo la dilatazione illimitata dei conflitti trovava ancora un limite fisico dettato dalle condizioni di vita della nostra specie sulle Terra5.
In seguito.
La ricerca scientifica sui “limiti dello sviluppo” avrebbe sancito la necessità di porre un freno anche alle dinamiche concorrenziali per lo sfruttamento economico delle risorse. In un contesto simile ha acquistato vigore l’idea di un nuovo “nomos della Terra”, di una forma inedita di governo dei processi globali, la cui difficoltà di attuazione sta nel riuscire a combinare un principio di autorità con la vitalità dell’ordine moderno e con la libertà. Ad ogni modo, in un mondo in cui l’unica forza frenante è l’angoscia di fronte alla catastrofe possibile, l’anarchia delle dinamiche scandite dal potere e dal denaro non trova più alcuna giustificazione. Pretendere ancora di affidarsi all’ipotetica capacità spontanea del sistema di ripristinare da solo l’equilibrio non ha più senso. Come dice De Carolis, significherebbe sperare che l’insicurezza e il terrore si propaghino nella massa con tanta intensità da renderla incondizionatamente docile, permettendo così ai diversi centri di dominio, liberi da ogni vincolo nei confronti dei governati, di regolare tra loro la competizione.

QUESTO NON È IL MONDO CHE CI PIACE

Non ci si deve più sentire sottomessi, almeno nell’ordine delle rappresentazioni intellettuali, alla convinzione che non si possa farla finita con la legge del mondo attuale, il quale dispone che “un altro mondo è impossibile”, ovvero che non può che essere (organizzato) sempre allo stesso modo. Non che pensare ad un mondo alternativo sia facile, anzi oggi esso sembra addirittura irrappresentabile, qualcosa di cui non potremmo neanche farci un’immagine. Come procedere? Dire semplicemente che un altro mondo è possibile sarebbe un’affermazione vuota che ricadrebbe nelle vecchie logiche. Allora conviene passare attraverso un’ipotesi negativa, nel senso di affermare la “non-necessità” di questo mondo. È una questione di logica modale. Se si ammette la necessità di questa economia non si può affatto vedere, nella situazione odierna, nessun’altra possibilità (Badiou). Allora, se non ci si può appellare ad una astratta e spesso inconsistente possibilità, occorre vedere prima di tutto un’altra necessità. Ci sono dei valori che non possiamo non riconoscere. C’è una potenza, che risiede in ciò che chiamiamo “natura”, di cui non possiamo disporre a nostro piacimento ma dalla quale dipendiamo. C’è una vita della materia, una natura indisponibile, ingovernabile, che deve essere assecondata. Ci sono segnali inequivocabili di un titanismo distruttivo che sono di sintomi di disordine e che sta a noi cogliere e interpretare. Ma allora dovremo mettere in questione lo stesso concetto di “mondo” e chiedersi: cosa viene rimosso nel nostro consueto modo di guardare il mondo intorno a noi?
Quando lo scienziato afferma: «Questo non è il mondo che ci piace», forse si sta riferendo ad una anacronistica idea di mondo risultante da una serie di dicotomie superate, come quelle di soggetto/oggetto, natura/società?

È necessario una grande cambiamento concettuale che ci consenta di superare le tradizionali dualità al fine di guadagnare una concezione unitaria dell’ecologia e della politica. Non c’è qualcosa come la “natura” come oggetto separato e definito. Soggetto e oggetto sono a tal punto intrecciati che la stessa natura può essere considerata in parte soggetto. C’è qualcosa di vivo che cambia continuamente, una vita non umana che si modifica in rapporto al nostro modo di produrre. Il che significa cambiare modo di abitare la terra, che comporta, a sua volta, una presa d’atto coraggiosa che consiste nel rompere il muro dell’impossibile. Viviamo sempre entro l’orizzonte di un certo ordine simbolico, di un contesto di significati, e il fatto che ci siano dei cambiamenti “reali” spesso è troppo traumatico perché si possa farne esperienza. Il punto è che «l’impossibile è reale» (Zizek) e che possiamo incontrare questo “reale” traumatico. Si pensa che certe cose non possano accadere perché sarebbe troppo doloroso accettarle, perché immaginiamo che ci mancherebbe la terra sotto i piedi. E allora? Se così fosse vorrà dire che metteremo le ali. Per rompere l’inerzia delle nostre esistenze, dobbiamo pensare l’impossibile come qualcosa di sconvolgente, che tuttavia accade e rispetto al quale possiamo dimostrarci inaspettatamente capaci di reagire. Cosa significa questo in rapporto all’azione?

Di solito pensiamo in modo disgiuntivo, per cui una cosa è possibile o necessaria o impossibile. Nei momenti decisivi in cui si rompe una certa inerzia, queste diverse modalità dell’accadere saltano. Avviene una sorta di cortocircuito tra le categorie modali, con buona pace di Aristotele. Abbiamo parlato nell’introduzione della virtù cibernetica, questa si riconosce dal fiuto per l’occasione, per l’eventualità, per il contingente. C’è dell’impossibile, ma questo diventa ciò che siamo chiamati a fare, ciò che è necessario perché non si può non fare. Riconoscere l’evento contingente vuol dire rischiare l’impossibile rompendo le situazioni standardizzate, piuttosto che accettare semplicemente di stare in quella condizione che Heidegger definiva di medietà (fare quello che “Si” fa) e rinunciare alle possibilità più autentiche. Questa forma di possibilità superiore si può definire “possibilità necessaria”, dove però la necessità non indica l’assenza di alternative (Aristotele definisce il necessario «ciò che non può essere altrimenti»). In questo caso la scelta è necessaria in quanto nasce dall’interpretazione della propria possibilità sentita come irrinunciabile. Lacan parlerebbe di “fedeltà al proprio desiderio”, ma anche su Foucault su questo ci ha lasciato un’eredità quando nell’ultima fase del suo pensiero rievocava l’insegnamento del cinismo greco con il loro “coraggio della verità”.

NON ABBIATE PAURA…

Stiamo sempre ragionando in merito al nuovo conflitto intergenerazionale che emerge dietro la dichiarazione giovanile di voler rispondere con la stessa moneta alla condizione diabolica del nostro tempo. La finalità può essere altrettanto distruttiva oppure costruttiva, a seconda del senso dell’abitare, o del salvare e custodire la terra. Per quest’ultimo ci vuole coraggio. Nel descrivere l’illuminismo, Kant dice che la “maggiorità”, come potere di pensare e volontà di sapere è riservata agli studiosi, non nel senso che solo gli esperti devono farsi carico di una responsabilità sociale, ma nel senso che tutti sono destinati a diventare studiosi, cioè tutti devono osare, tutti devono voler sapere e servirsi del proprio intelletto. Kant dice proprio che “Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”. La complessità e il senso di impotenza diffuso che stiamo vivendo non giustifica l’ignoranza che dimostrano le classi dirigenti (anzi, occorrerebbe un più di formazione a tutti i livelli), la cui manifesta incapacità di risolvere i problemi per certi versi ha compromesso la fiducia della massa dei governati (o dei governati ridotti a massa) mentre per altri ne ha aumentato la dipendenza.

Se le cose stanno così, si tratta allora di sprigionare una “battaglia dell’intelligenza” (Stiegler) a partire dal principio che la maggiorità democratica, e dunque collettiva, si poggia sulla maggiorità come coraggio e volontà di sapere individuali. Il coraggio e la volontà di sapere, ossia il non voler essere dipendenti dai dogmi veicolati e controllati da coloro che pretendono di pensare al posto nostro, si devono affermare, e per farlo si deve lottare contro la tendenza alla viltà e alla pigrizia che caratterizzano la minorità adulta. Ci dice Kant: «La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall’eterodirezione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l’intera vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me». Come si vede, prima ancora che un’epoca, l’Illuminismo è un’esigenza etica posta al centro di un soggetto, è l’atteggiamento di maggiorità come capacità di dissenso, di emancipazione e autonomia intellettuali. Ci eravamo chiesti cosa vuol dire essere adulti e Kant ci offre esempi concreti per aiutarci ad assumere una posizione più critica nei confronti della nostra inerzia e sfiducia, se non addirittura cinismo. Maggiorità significa poter pensare senza aver bisogno di ripetere un libro; essere capaci di compiere scelte di vita senza la tutela di un direttore spirituale; darsi regole di buona salute senza seguire ciecamente le prescrizioni di un medico. Minorità al contrario è lasciarsi imporre da un altro i pensieri, le azioni, la condotta. Come si vede, Illuministico è il movimento grazie al quale si passa da uno stato all’altro, è la fatica di strapparsi alla minorità per la maggiorità.

Questo punto è cruciale, nel senso proprio che apre ad una biforcazione. Non ci si può aspettare nessun movimento di uscita naturale, come se l’umanità diventasse adulta grazie alla spontaneità di un processo o ad un progresso costante, come se non richiedesse alcuno sforzo. Né tantomeno questo passaggio può essere imposto. E non si tratta neanche di qualcosa che riguardi il pensare bene, per il quale basterebbe acquisire un metodo rigoroso, delle istruzioni. Ci troviamo di fronte al vecchio problema, antico quanto il crocicchio di Edipo, divenuto ancora più esacerbante in un tempo in cui, come oggi, convivono tre generazioni all’interno dello stesso mondo adulto (si possono trovare anche alleanze inaspettate, per esempio tra nipoti e nonni). In che misura il figlio deve incamminarsi diritto sulle stesse orme di ciò che è stato stabilito da chi lo ha preceduto oppure essere altro? Esiste una via non violenta per una successione, o si può solo zoppicare (il tratto edipico distintivo), per far sì che a ogni generazione i discendenti occupino senza violenza il posto dei predecessori senza spodestarli né identificarsi con loro? Come rispettare l’ordine stabilito dalle generazioni ascendenti e, al contempo, far valere il proprio diritto di rivedere la forma di vita alla luce di una nuova visione del mondo? Il confinamento pandemico ha comportato un’accelerazione dovuta all’irruzione di una crisi cosmologica (da cui è derivata la crisi politica). Ciascuno è responsabile della sua condizione, che comporta evidentemente il portare il peso delle cose (res-pondus), delle scelte che si sente di dover fare in rapporto alla propria età. Per pigrizia o per viltà, dice Kant, ciascuno è responsabile del proprio stato di minorità qualora dovesse permanere in questo stato. É talmente più comodo lasciarsi imporre la propria condotta da altri, farsi suggerire le frasi fatte da dire, ed è così terrificante la libertà quando ci fa sentire soli nel pensare autonomamente o nell’esercizio del nostro giudizio, che viene da chiedersi cosa ci potrebbe spingere a fare il salto. Per questo ci vuole coraggio (sapere aude, “abbi il coraggio di conoscere”).

Da Kant non ci viene nessun incitamento generalizzato alla critica o alla disobbedienza. Piuttosto propone di affiancare all’obbedienza la vigilanza critica. È controintuitiva ma interessante la sua distinzione tra uso privato e uso pubblico della ragione. L’uso privato è l’uso che faccio della mia ragione quando sono all’interno di un’istituzione, quando la metto al servizio, ad esempio, dell’istruzione in quanto professore di una scuola, o come funzionario nel mio ambiente di lavoro. L’uso pubblico si ha invece quando esprimo dubbi, quando si avanzo riserve, quando articolo critiche (se ad esempio scrivo in un giornale). Vale a dire nel momento in cui prendo la parola non in virtù di una competenza specifica, quando sono nel mio ruolo, ma in quanto cittadino, o meglio in quanto coscienza universale. A questo livello non c’è cesura possibile e la libertà deve essere totale. Kant dunque pone, in questo senso specifico, delle restrizioni al suo appello all’emancipazione, distingue tra critica teorica e disobbedienza pratica e dà un limite l’esercizio dell’espressione critica.

Che tipo di coraggio è in gioco in questa formulazione kantiana? Non del coraggio di essere sé stessi come è prescritto, ad esempio, nei programmi di autorealizzazione personale, validi quando si vuole fare chiarezza sulla propria identità (specie quando si subiscono imposizioni). Qui in gioco è un altro tipo di coraggio, quello di far emergere l’io indelegabile, il coraggio di pensare in prima persona. In gioco non è l’io che si oppone al “Tu” o al “Noi”, ma l’io che si oppone al “si” impersonale. Rifiutarsi di essere una semplice onda nel mare dell’opinione, opporre alla viltà l’io che, nel momento in cui si sente chiamato (contingenza) risponde “presente”, perché avverte l’urgenza e l’impossibilità di sottrarsi (impossibile) perché sa che è lui che deve rispondere, non può non farlo (necessario). Sentire l’urgenza di agire, di generare qualcosa di nuovo, implica ritenere questo qualcosa vero in almeno un mondo possibile. Il problema è prettamente fenomenologico, e sta nel far essere qualcosa (l’identità di un molteplice) che ha un grado di esistenza minimo in questo mondo, farlo manifestare con un’intensità massima contrastando il mondo così com’è, la tendenza al si fa così impersonale; e bisogna evidentemente partire dal profondo convincimento del proprio io.

Questo atteggiamento può essere definito dissidenza civica, ossia una forma di disobbedienza che nasce dall’esperienza di una impossibilità etica, che è un sentimento che il dissidente vive intensamente. Si disobbedisce perché non è più possibile continuare ad obbedire. Da uno stato ordinario di obbedienza, dall’abitudine a non farsi troppe domande e dalla semplice osservanza delle norme, il dissidente civico fa l’esperienza improvvisa dell’intollerabile (Gros). Sperimenta un’impossibilità che lo obbliga alla rottura. Non è più possibile continuare. È impossibile continuare a fare quello che si è sempre fatto, non si può non (necessità) rompere con la consuetudine. Non si può più continuare a fare come se non si sapesse, non si può più tacere. Il dissidente ha un senso forte e deciso di ciò che è giusto e forse anche di ciò che è sacro. A rischio di travolgere se stesso o il mondo, riafferma ciò in cui crede e che sente onorabile, soprattutto nel momento in cui sorge l’ostacolo di una legge che esige che deroghi o trasgredisca ai suoi principi. È in nome di un’obbedienza superiore che disobbedisce. La sola cosa che conta è la salvaguardia delle sue convinzioni, continuare ad obbedire fino in fondo ai suoi principi. La forza di disobbedire all’altro gli viene da un’obbedienza a se stesso. Disobbedire equivale a obbedire a sé.

Questa doppia negazione non è solo esplosione, ma non è neppure dialettica nel senso di una sintesi. É rottura (impossibile!) e allo stesso tempo affermazione (“non posso non” in cui le due negazioni si elidono). C’è qualcosa che impone una determinata azione, un distillato di pura potenza. Non posso che fare ciò che la mia coscienza mi dice di fare. Il cuore della dissidenza è quando ciascuno si scopre insostituibile e sperimenta l’impossibilità di delegare ad altri la cura del mondo. Obbedire normalmente senza sperimentare questa impossibilità è un dire si all’altro e no a se stessi (un sé che per certi versi neanche esiste). Obbedisco perché non voglio vedere, non voglio sapere, temo ciò che potrei scoprire; oppure non voglio rischiare di ritrovarmi solo, mettere a rischio la carriera, le mie abitudini. Obbedisco ad una voce dissonante nella bonaccia del conformismo.

Ma allora disobbedire vuol dire semplicemente ritornare al sé nel senso di una chiusura nel proprio io? Se fosse così non rimarrebbe nulla delle passioni politiche, delle rivolte collettive per la giustizia. Piuttosto questa esperienza di dissidenza vissuta come obbligazione etica è un sentirsi impegnati in cause in cui sono presenti gli altri, nella rivendicazione di valori che vanno oltre il singolo individuo. Ad esempio, abbiamo detto che il pianeta Economia mobilitava le risorse in vista della produzione, mentre oggi molti sentono l’esigenza di impegnarsi in un’economia impegnata al mantenimento delle condizioni di abitabilità della Terra. Bene, è chiaro che qui la discontinuità è rilevante, anche nei confronti delle lotte progressiste tradizionali. L’insubordinazione collettiva diventa un movimento storico reale quando si produce una vibrazione comune di molti sé indelegabili, quasi un contagio, perché la situazione è avvertita come talmente degradata che ciascuno sente l’urgenza di reagire e la necessità di agire per affermare una giustizia.

A questo punto ci si può chiedere: come è possibile che questo io che è solo mio, che non ammette delega, assolutamente singolare, pretenda di essere al contempo il soggetto etico-politico dell’universale? Com’è possibile ammettere il carattere antagonistico, cioè propriamente politico, della società, il fatto cioè che non esiste una posizione neutrale e che la lotta è costitutiva (l’io dissidente) e, al contempo, dichiarare la propria posizione come universalistica? Accettare la necessità di schierarsi è l’unico modo per essere universali, laddove l’universale è inteso come la durezza di quella verità che nessuno vuole sentire. Per capire questo paradosso dobbiamo pensare l’antagonismo (dunque il dualismo) come intrinseco all’universalità stessa. Il gesto politico del dissidente consiste nel mettere in questione l’ordine universale esistente in nome di un dettaglio, di una parte minoritaria esclusiva e guardare il mondo a partire da essa. Un po’ come in una seduta di psicoanalisi quando ci si identifica con il rimosso, con il sintomo, in quanto unico punto della vera universalità. All’interno del Tutto sociale è proprio l’elemento impossibilitato a realizzare la sua piena identità particolare a rappresentare la dimensione universale. Il vero universalismo non è di chi predica la tolleranza e l’unità onnicomprensiva, ma di coloro che s’impegnano in una battaglia appassionata per affermare la verità che li entusiasma.

IL MONDO NON È DEI SIGNORI DELLA GUERRA, MA VOSTRO, PERCHÉ SIETE TANTISSIMI E IL MONDO POTETE CAMBIARLO

Il mondo non è di chi vuole dividere, ma di chi vuole unire, di chi riconosce il valore del legame, che non imprigiona ma libera. In una cultura fortemente individualista si fatica a capirlo, ma lo straordinario rafforzamento della illusoria indipendenza individuale (che il cosiddetto “capitalismo tecno-nichilista”6 ha reso possibile) ha fatto crescere, paradossalmente, l’interdipendenza tra i viventi nell’ecosistema planetario. Grazie allo sviluppo tecno-economico ci ritroviamo immersi in una trama sempre più fitta ed esigente di connessioni. Se c’è un diritto è, innanzitutto, quello che impone dei limiti a tutti gli altri diritti e limiti. Il nomos di tutti gli altri è il nomos della Terra (non in senso schmittiano), un diritto debole ma davvero sovrano. Se c’è una proprietà è quella della Terra sugli esseri umani e non il contrario. Ovvero un diritto capace di soddisfare un modo alternativo di abitare la Terra (nella sua interezza e non singoli territori) e di appartenere all’umanità (e non a un popolo determinato). Terra esercita un’autorità che contesta i modi di sovranità degli Stati-nazione che avevano organizzato la cartografia del pianeta in una griglia di Paesi in conflitto. Ora è il momento di usare un’altra scala, quella delle forme di vita connesse. La pandemia ci ha rivelato che nulla di ciò che riguarda Terra rientra nelle frontiere degli Stati (Latour). È in termini planetari, e non nazionalistici, che si possono affrontare i problemi, come soglia di una umanità che ha la necessità di ripensarsi non più mediante le innumerevoli contese di gruppi etnici, ma attraverso la moltiplicazione delle connessioni che portano ad un’unica totalità planetaria.

Occorre però rendersi visibili. La visibilità ha un’importanza intrinseca. È un appello universale a tutti, anche a se stessi. Ciò che appare inesistente, ciò che non ha visibilità, dovrà apparire come esistente. Il problema è che i giovani non sono poi così numerosi, anzi occorre dire che nel nostro Paese sono pochi (gli under 35 sono il 32 per cento secondo i dati del Censis). Ciò significa che non hanno una grande capacità di rappresentare i loro interessi e di incidere politicamente. Ma ancora più importante, come già rilevato, è il fatto che non costituiscono una classe unitaria. Ciò che conta è come si dispongono rispetto a questo spazio nichilista definito dall’assenza di proposte sulle nuove condizioni di vivibilità.

Non si tratta della questione ambientale, ma neanche solo dell’abitabilità della terra, perché sono condizioni che fanno riferimento ad un contesto più ampio che include la questione dello sviluppo umano. Diversamente dalle prospettive che si concentrano esclusivamente su utilità e risorse, c’è in gioco ciò che Sen ha definito “capacitazioni” (capability). Mediante questo approccio si può misurare “il vantaggio individuale in ragione della capacità che la persona ha di investire la propria vita sulle cose a cui, per un motivo o per l’altro, assegna un valore”. Lo sviluppo umano qui è pensato come il processo che apre il ventaglio delle possibilità offerte agli individui. Il nuovo ethos che si sta formando, non solo nelle nuove generazioni, consiste nel permettere al maggior numero di persone, tramite le risorse accumulate dal potere pubblico, di accedere allo sviluppo umano (reddito, istruzione, sanità). Questo significa puntare a costruire una società in cui vengano date alle persone più opportunità effettive di realizzare ciò a cui attribuiscono valore, invece di continuare a valorizzare le sole capacità imposte dal Mercato (mi riferisco soprattutto alla capacità di rendersi visibili e far soldi nell’ecosistema ormai interamente organizzato del marketing), che privilegia alcune funzionalità specifiche e dunque coloro che si riconoscono in queste pratiche.

Essere giovani comporta di per sé il dover orientare la propria esistenza. La giovinezza è attraversata da orientamenti contraddittori, a volte mescolati: da una parte la passione per la vita immediata, per l’istante, per il piacere senza progetto, senza costruzione. Molti sono preda di una passione che spinge a bruciare la vita, a consumarla, che però può incorporare anche una spinta alla ribellione, alla contestazione. La rivolta è fatta anzitutto di brevi entusiasmi, che possono dare luogo anche a forme di vita collettive, come le occupazioni di luoghi pubblici, sicuramente per cause legittime e onorevoli, ma che restano esperienze brevi, senza effetti durevoli, prive di costruzione e senza una vera e propria organizzazione del tempo. Manifestazioni estemporanee, senza futuro. Questa disorganizzazione crea assuefazione, irresponsabilità, o ignoranza e stupidità, o senso di impotenza, rassegnazione, sfiducia, che alla fine conduce ad una dispersione della propria vita.

L’altra tendenza maggioritaria porta a seguire il corso delle cose, dissimulando in parte il nichilismo contemporaneo. Si tratta di fare come se tutto avesse un senso. Sono i giovani incanalati dentro le procedure di apprendistato, nell’ordine del fare carriera. Sono giudicati come i più meritevoli perché si dispongono a conservare le cose così come sono. Qui la vita è orientata verso la riuscita, la pienezza del futuro, il denaro, la posizione sociale, il mestiere redditizio, le vacanze al sole nei posti esotici. Queste ambizioni producono “un culto conservatore dei poteri esistenti, visto che vi si impianterà la propria vita nelle migliori condizioni possibili” (Badiou). Queste due tendenze non esauriscono le possibilità. Esiste un’altra virtualità, oltre quella che si consuma nella sua stessa intensità e oltre quella di un programma di vita che si edifica conservando l’ordine del mondo. Esiste anche un desiderio costruttivo di altra natura. Per esso il “sistemarsi” può essere revocato a partire da un’erranza non più nichilista, ma capace di trovare una bussola, un disorientamento in grade di disegnare il suo cammino.

Questo discorso non riguarda solo i giovani. Chi si trova di fronte al bivio poi segue la strada che ha scelto. Ecco allora tra chi cerca il proprio orientamento gli attivisti, i militanti; ma poi ci sono anche gli incerti, qualche scettico, coloro che non sono del tutto disincantati; e ancora le persone di buona volontà, i cittadini comuni, gli industriali più illuminati, gli investitori, imprenditori, e tutti coloro che hanno visto il proprio territorio abbandonato, che si sono votati a questo allargamento di orizzonte, e che hanno sviluppato una loro razionalità alternativa, che non ci stanno più a farsi semplicemente dirigere; troviamo anche i più creativi tra gli ingegneri, gli architetti e in genere tutti gli innovatori che si sono visti castrare i loro desideri dalle direttive della produzione. Insomma, c’è un ampio gruppo eterogeneo di persone che dimostrano di avere un pensiero in divenire, capaci di cogliere e accompagnare le trasformazioni della società, tutti coinvolti nello stesso processo di civilizzazione. C’è bisogno di una ricognizione di quel che esiste, ma che non è quello che detta legge nel mondo così come appare, “nel contesto di un rimpasto fondamentale, sebbene all’inizio estremamente localizzato, della distribuzione delle intensità d’esistenza nel mondo” (Badiou). Su questo si fonda l’appello dello scienziato (Rovelli), il quale si rivolge ad una classe virtuale, minoritaria ma potenzialmente maggioritaria, che è “un niente che aspira ad essere il tutto”, tentando di infondere coraggio a chi ancora manca l’orgoglio di essere sicuro di sé e del proprio avvenire.

NOTE

1 – In psicoanalisi questo meccanismo psichico prende il nome di “negazione”: il soggetto, pur formulando uno dei suoi desideri, pensieri, sentimenti, fino allora rimossi, continua a difendersi negando che gli appartenga.

2 –
Come dice Magatti, “un mondo sostenibile non è un mondo fondato sull’aumento illimitato delle possibilità individuali, sullo sfruttamento sistematico e intensivo delle risorse naturali, sullo spreco e sul circuito della sostituzione permanente generato dall’innovazione continua e dalla pulsionalizzazione del desiderio.

3 – È
bene ricordare che Nietzsche distingueva tra un “nichilismo passivo”, in cui si avverte la “morte di Dio” come perdita irreparabile, e un “nichilismo attivo” come smascheramento dei falsi valori, preliminare all’oltrepassamento dell’uomo così come lo abbiamo conosciuto, e capace di restaurare le ragioni della molteplicità e della potenza affermativa.

4 –
In questo senso Latour si chiede: «Che cos’è un corpo “umano” se il numero di microbi necessari al suo mantenimento supera di parecchi ordini di grandezza il numero delle sue cellule?».

5 –
Kant è stato il primo ad osservare che la sfericità della Terra impediva ai popoli di separarsi, costringendoli di fatto a «sopportarsi a vicenda».

6 – L’espressione “capitalismo tecno-nichilista” emerso in campo sociologico mette insieme il pensiero della tecnica di Heidegger e le analisi sul capitalismo di Marx con il concetto di nichilismo profetizzato da Nietzsche come spirito del nostro tempo: la caratteristica di perdita di valore e di significato di tutte le cose determina le condizioni per una crescita economica indefinita.

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