PARTE II:
La paura in carne e ossa
Tra le pagine della storia
Nell’invenzione cinematografica come nella realtà, il mistero – nella sua connaturata indeterminatezza – si materializza nello spavento di chi lo sperimenta. Ma le paure trovano occasione di determinarsi e di determinarci anche rimanendo legate al mondo e alla storia, senza scomodare l’enigma. Basta il contatto con il diverso che, in quanto tale, ci obbliga a dubitare di certezze acquisite e a riposizionarci anche in relazione a valori radicati. Figuriamoci quando sono gli eventi sociali o storici a sconvolgere convenzioni radicate o tradizioni lungamente elaborate.
Restando nelle sale cinematografiche, chi per età anagrafica ha memoria delle produzioni statunitensi degli anni Cinquanta, oggi ricorda che da bambino ha temuto per la sorte degli Yankees in guerra con i perfidi Apache. Per fortuna, a rischio di perdere lo scalpo, i bravi cowboys di quei tempi finivano con l’avere la meglio. Paura esorcizzata nell’attesa della prossima puntata di Rin Tin Tin.
Sulla paura nei confronti degli indiani si è fondato un intero genere legato anche al mito del pioniere, dell’avventura, del coraggio. I coraggiosi cowboys sono stati dipinti da tanta cinematografia come eroi che, sprezzanti del pericolo e della paura di cadere nelle mani di quei selvaggi senza divisa e senza dio (cattolico), hanno illuminato con la fiaccola della legge una razza geneticamente inferiore. John Ford, maestro del Western, ha vinto cinque oscar e nel 1971 ha coronato la sua gloriosa carriera con il leone d’oro. Per carità, meritatissimo premio, ché non bastano i contenuti per fare un grande cinema.
Ma il revisionismo storico gioca brutti scherzi; ecco che con Soldato blu (1970 Soldier Blue) diretto da Ralph Nelson il mito si capovolge e gli stessi selvaggi che incutevano paura ai nostri gloriosi pionieri, si rivelano per ciò che sono stati: le vittime del più feroce dei genocidi. Robert Redford (personalità progressista commemorata in questi giorni) racconta la storia del West in otto puntate demolendo la leggenda degli Indiani cattivi/Bianchi buoni (serie a breve distribuita nelle piattaforme). Dustin Hoffman presta il suo volto a Piccolo grande uomo (1970 Little Big Man) che, assistendo al massacro ordinato da Kuster progetta di ucciderlo. Sempre all’interno della cinematografia americana celeberrimo Balla coi lupi (1990 Dances with Wolves) diretto e interpretato da Kevin Costner. Il cinema finalmente dimostra quanto il terrore subito dagli Indiani non si esaurisca con l’accendersi delle luci in sala, ma costituisce una delle pagine più oscure della storia dell’umanità. E per certo non basta la nuova mitologia un po’ ipocrita del buon selvaggio a restituire la dignità ai pochi sopravvissuti nelle riserve, defraudati per sempre della loro cultura.
Insomma, anche il cinema può dare il suo contributo alla politica proprio manipolando le paure: gonfiare il terrore nei confronti del nemico cattivissimo è un modo come un altro per caricare il cuore dei propri crociati
Passando alle pagine della storia più vicina a noi, moltissimi sono i film che hanno mostrato gli orrori della guerra. Basterebbe ricordare il ragazzino biondo di Germania anno zero, parricida e suicida per temere non solo la guerra in sé, ma soprattutto il veleno che istilla anche nelle generazioni future. Il film, girato da Roberto Rossellini subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, voleva essere una denuncia terrorizzante. Purtroppo si è rivelata inutile.
Tra i molti film sulla guerra, il tema dell’Olocausto costituisce quasi un capitolo a sé stante tanto fitta e varia è stata la produzione. Vale la pena segnalarne uno recentissimo che si distingue da tutti gli altri: La zona d’interesse (2023 The Zone of Interest) diretto da Jonathan Glazer, regista e sceneggiatore britannico. L’azione si svolge tutta nell’area di 25 miglia attorno al campo di Auschwitz. Non una sola scena prende in considerazione il tormento a cui le vittime dietro il muro sono condannate. Le immagini mostrano la vita della famiglia di Rudolf, il generale responsabile del campo. Una moglie e cinque figli trascorrono il tempo in un giardino rigoglioso, in una casa comoda al riparo dalle brutture e dalla tragedia. La moglie di Rudolf indossa serena davanti allo specchio vestiti e gioielli confiscati ai prigionieri. Ma a momenti da dietro il muro si vede salire un fumo grigio, si sentono abbaiare i cani, a tratti gli spari, qualche urlo, lo sferragliare di treni.
Il terrore aleggia nell’aria e avvelena i gesti più insignificanti. Tutto è contaminato ma nessuno vuole esserne consapevole. I mezzi per sapere ci sono, ma sapere non vuol dire capire, non vuol dire prendere coscienza e quindi agire.
Sono situazioni in cui non si rappresenta la paura che paralizza, ma piuttosto l’assenza di essa, un’assenza ancora più mostruosa. Manca la paura vitale, quella salvifica, quella che prende coscienza del male e ci permette di salvarci.
Di salvarci la vita, e prima ancora salvare la propria umanità.
Il volto dello sconosciuto
Non è facile capire che cosa veramente ci minaccia. A volte bastano tratti somatici diversi, o abitudini sconosciute per farci alzare le difese. Insomma, la paura del diverso, diverso in quanto tale.
In questo senso sono abbastanza significativi due film americani abbastanza recenti: American History X del 1998 di Tony Kaye, Gran Torino nel 2008 di Clint Eastwood.
Entrambe sviluppano con chiarezza quasi didascalica il tema della paura nei confronti di etnie minoritarie o di uno stile di vita fondato su valori non condivisi. In American History il neonazismo diventa il collante tra due fratelli fragili che si scagliano contro un mondo nel quale non riescono ad integrarsi. Walt Kowalski – Clint Eastwood – è un reduce di Corea che vive coltivando l’odio raziale nei confronti della comunità asiatica del suo quartiere, si fida solo del suo fucile e ama solo la sua Gran Torino del ’72.
Insomma, L’America dai molti difetti è anche l’America che attraverso le forme artistiche ha il coraggio di analizzare sé stessa, come ha fatto nel rappresentare l’intolleranza nei confronti dei neri.
Già dal 1962 Robert Mulligan con Il buio oltre la siepe (To Kill a Mockingbird, dall’omonimo romanzo di Harper Lee del 1960) il nobile volto di Gregory Peck dà il volto all’avvocato che si assume la difesa del giovane nero innocente accusato di avere violentato una ragazza. Le paure generate dalla situazione sono molte: l’odio razziale anima non solo la folla inferocita, ma anche i giurati pronti a condannare sulla spinta dei preconcetti. Inoltre, l’avvocato (vedovo) ha due figli esposti al pericolo proprio a causa del coraggio paterno.
La paura seminata dal razzismo diventa più spietata in Mississippi Burning – Le radici dell’odio (1988 Mississippi Burning, regia di Alan Parker), ispirato ad un fatto vero del 1964. Due agenti dell’FBI devono affrontare l’omertà delle autorità locali e soprattutto la ferocia del Ku Klux Klan. La violenza è strumento che assume molte forme, fino a quella inflitta dal vicesceriffo corrotto su sua moglie picchiata selvaggiamente.
Forse il film più articolato e problematico su questo tema è quello della regista afroamericana Ava DuVernay: Selma del 2014. Il film fa riferimento agli scontri sanguinosi e reiterati che inutilmente tentarono di bloccare la marcia di attivisti non violenti da Selma a Montgomery. Martin Luter King, che ha da poco ricevuto il Nobel per la pace, si incontra con il presidente Lyndon Johnson affinché venga concretamente rispettato il diritto di voto concesso ai neri solo sulla carta. Gli oltranzisti della segregazione ricorrono alla violenza e alla menzogna. La paura spacca la compattezza della resistenza nera, ne mette in contraddizione le idee. Ma la marcia raggiunge il suo scopo.
Il film pone un problema tra gli altri: chi ha avuto più paura? La folla nera che sopporta a mani nude insulti, intimidazioni e percosse pur di mantenere la posizione, o gli agenti di polizia a cavallo, armati di manganelli e lacrimogeni? Anche King vacilla davanti alla morte dei suoi; i politici in carica, sprezzanti difensori dello status quo, guardano con sgomento i propri privilegi messi in pericolo. Cedono solo quando la salvaguardia dei propri interessi implica un prezzo troppo alto da pagare.
Resta aperta la domanda: chi ha più paura?
Nell’affollata categoria del diverso ecco comparire la figura del migrante. È colui che, con o senza permesso, si è lasciato alle spalle la propria terra di origine dalla quale è stato espulso per i più vari motivi. Come e perché accogliere questi rifiuti? È una realtà che l’Italia ben conosce sia per posizione geografica che per la storia vissuta.
Emanuele Crialese nel 2011 con Terraferma riprende il tema già affrontato nel 2006 con Nuovomondo: l’istinto di sopravvivenza, l’arcaico desiderio di scoperta, il miraggio di nuovi orizzonti superano la paura dell’ignoto in chi ha poco da perdere, ma il coraggio dell’avventuriero – ancorché disperato – risveglia ancestrali paure in chi si assopisce pago delle poche garanzie di cui gode.
Nel mondo di Crialese il mare è creatura perennemente spalancata, con indifferenza accoglie l’ondivago destino dei viaggiatori, disperati o intraprendenti. Che si tratti degli Italiani che a inizio secolo XX si avventuravano nel Nuovo Continente, o di etnie africane che cercano rifugio nell’Europa millenaria, l’azzurra distesa può inghiottire o sostenere verso un cammino di salvezza, è eterna fonte di attrazione e di terrore. Pare che lo sciacquio instancabile dell’onda voglia ripeterci che senza di lui non potremmo vivere e che nell’incertezza, nella paura latente o esplosa, nella cecità della sorte si misura la nostra completezza. Un mantra più ammaliatore della voce delle sirene. “Nella vita è rischioso non rischiare, perché la vita stessa è un rischio… siamo andati in mare e non siamo morti”. È il racconto delle peripezie di un personaggio di Fuocoammare, il film documentario diretto da Gianfranco Rosi nel 2016 e premiato con l’Orso d’oro a Berlino.
Le umane istituzioni col tempo (un tempo spesso lunghissimo) finiscono col normare le divergenze culturali. Ma talora la natura stessa produce anomalie tali da disorientare anche gli individui più tolleranti. Davanti al diverso – ontologicamente, geneticamente diverso – non c’è mente che non tremi. E da qui tutta la sequela di mostri, vampiri e simili protagonisti delle narrazioni di ogni tempo ed età. Tutti ricordiamo Freaks di Tod Browning del 1932 che esibiva come massima attrattiva il fatto che gli interpreti del film erano mostri in carne e ossa. Opera a cui dichiara di riferirsi Gabriele Mainetti quando nel 2021 mette in scena Freaks Out. In entrambi i film il circo è la cornice che in qualche modo giustifica la presenza di ‘mostri’ intesi come ‘fenomeni da baraccone’.
È uno spunto che trova la massima completezza in Border – Creature di confine (Gräns), lungometraggio diretto e co-sceneggiato nel 2018 dallo svedese di origini iraniane Ali Abbasi.
Fin dalla prima scena appare il volto inquietante di Tina. È una donna in divisa, un’addetta alla dogana che svolge funzioni di controllo all’aeroporto. Il suo olfatto straordinario le permette di percepire contenuti illegali anche incisi su supporti digitali, come la pornografia o altri prodotti non individuabili neanche dai più sofisticati sistemi di controllo. Attraverso l’uso esclusivo delle percezioni sensoriali riesce a distinguere il male, ma il suo volto deforme riporta ad una maschera neanderthaliana repellente nei tratti, inquietante nell’espressione. La tensione cresce quando la donna si imbatte in un uomo dai tratti analoghi ai suoi. Tina trova il coraggio di uscire dal suo imbambolato isolamento, si avventura in una relazione, si libera dai vestiti, scoprendo che anche l’appartenenza di genere (lei femmina lui maschio) è un confine solo apparente. Per loro anche il modus coeundi e generandi percorre strade anomale, così come il bisogno di nutrirsi considerato repellente per qualunque uomo. I due si riconoscono come appartenenti ai trolls, creature umanoidi del folklore scandinavo, che sono state oggetto di persecuzione, sperimentazione e tortura da parte degli umani ai quali sono stati costretti a uniformarsi.
Il film non mette l’accento sull’aspetto mostruoso quanto sul complesso e doloroso percorso di identificazione di una minoranza perseguitata e quindi segnata dalla paura. Se e quando la comunità li accoglie, lo fa a fronte di un utile usuraio: la modifica di attitudini e abitudini per diventare esseri funzionali al sistema della maggioranza.
Quale tipo di paura ci impedisce di aprirci ad un’alterità sconosciuta? Quanto l’identità di una creatura corrisponde all’apparenza e alle convenzioni? Quanto profonde sono le paure che riusciamo a scatenare in una minoranza ‘aliena’ pur di non mettere in crisi la nostra identità?
Il film, candidato finalista in moltissimi premi, ha finito per vincerne uno solo: il Premio Leone Nero al Noir in Festival.
Eppure, ci sembra che avrebbe meritato di meglio.
Ma il volto di Tina è davvero inquietante…
L’alieno
È interessante constatare come l’idea di diversità si trasformi nel tempo. È bastato aspettare qualche decennio perché la diversità raziale, ad esempio, mostrasse meno problematici confini. Un film girato nel 1985 come The Color Purple (Il colore viola) di Steven Spielberg oggi, dopo cinquanta anni, ha in parte perso l’aspetto dirompente dell’attualità.
Il grande regista statunitense si è sempre mostrato assai sensibile ai problemi di chi fosse vittima di discriminazione, come provano i suoi film più impegnati. Tanto che già si è proiettato in un prossimo futuro in cui la minoranza da proteggere potrebbe essere costituita da creature create in laboratorio e pertanto aliene rispetto agli umani. Già dal 1982 con di E.T. The Extra-Terrestrial aveva dato vita a quel personaggio un po’ tenero un po’mostruoso che cerca di familiarizzare con bambini terrestri. Lo spavento è reciproco ma l’esprit d’enfant che li accomuna permette loro di trovare presto un terreno di intesa. Quando nel 2001 riaffronta il tema del rapporto tra gli umani e le creature artificiali di ultima generazione le problematiche emerse sono di natura assai più complessa. Con A.I.-Artificial Intelligence ci spostiamo in un futuro che già oggi, che son passati venticinque anni, non appare più troppo lontano. Il robot o qualunque altra entità creata in laboratorio, ha acquisito dal suo creatore anche la natura affettiva, psichica, emotiva. David, il piccolo umanoide prodotto in laboratorio per appagare il bisogno di maternità di Monica, finisce lui stesso col pretenderla anche quando lei decide di abbandonarlo. L’imprinting ricevuto lo rende emotivamente esigente, quindi ha paura del mondo come qualunque altro bambino, soffre e non basta Teddy, il robottino orso di peluche, a consolarlo del tradimento subito. Urla: sono unico anch’io!
D’altronde per poter costruire un meccanismo che costituisca la naturale estensione delle proprie abilità, e potergli demandare le funzioni esecutive, si finisce col dare vita ad una creatura a propria immagine; quindi, una creatura geniale come chi l’ha progettata, apparato psichico compreso.
Da 2001 A Space Odyssey (1968) di Stanley Kubrick, o Blade Runner (1982) di Ridley Scott i film popolati da automi e replicanti crescono a dismisura, creature aliene che si affiancano ad extraterrestri tecnologicamente avanzatissimi, affascinanti e inquietanti protagonisti di infinite Star Wars. Nel 2016 Ex Machina di Alex Garland ha vinto l’Oscar per i migliori effetti speciali. Già, forse bisogna considerare anche questa opportunità tecnico – estetica: sono intrecci che danno modo di creare effetti visivi straordinari e conturbanti, come dimostra James Cameron con Avatar, colossal di fantascienza che ha ottenuto i maggiori incassi della storia del cinema.
Al di là del risvolto economico (che resta comunque movente significativo), e al di là delle grandi differenze qualitative, persiste e pervade l’entusiasmo per le fantasmagoriche creazioni della mente umana.
Ma è un entusiasmo che nasce malato di paura. L’umanoide, in combutta con altri alieni, si rivolta contro il proprio creatore, lo supera e lo umilia, lo costringe a constatare la propria impotenza, proprio lui che gli ha dato la vita.
Un umanoide con il volto di Adamo che disobbedisce al Creatore, col coraggio di Zeus che evira Cronos, si sostituisce a lui e diventa il re dell’Olimpo.
La natura matrigna
Anche quando l’essere umano limitava la sua avventura alla crosta terrestre non mancavano occasioni di puro terrore. Anche in questo caso la possibilità di spingere gli effetti speciali a più spettacolari scenografie ha avuto il suo peso. Ma il cinema è anche questo, con buona pace dei cultori del contenuto.
L’impatto con l’ingovernabile potenza della natura offre occasione di liberare la paura allo stato più puro, direi, più rispettabile. Le vittime devono abbassare la testa di fronte ad una catastrofe finalmente naturale: sono vittime senza colpa. E se mai vi fu colpa la morte in qualche modo restituisce dignità alla vittima quando non addirittura il blasone dell’eroismo. La catastrofe è anche un’occasione per dare prove straordinarie di coraggio e intelligenza. Sono quei casi in cui la paura, liberata dalla colpa, diventa spinta dinamica per la ricerca di strade inedite.
Dove tutto è perduto il rischio è la sola possibile salvezza. Come nel film di Steven Soderbergh Contagion che nel 2011 sviluppa il tema di una pandemia che coinvolge l’intero pianeta. A noi che abbiamo vissuto la pandemia da Covid 19 nel 2020 sembra quasi un documentario. Le fasi del diffondersi del morbo sono pressoché le stesse: dalla Cina il paziente zero, la responsabilità dei pipistrelli, trasmissione per vie analoghe, mascherine e strutture ospedaliere sature. Anche nel film la paura accelera la ricerca del vaccino, l’arbitrio delle scelte diventa merito. Un film che è sembrato profetico.
Resta totalmente misteriosa la catastrofe apocalittica planetaria del film The Road (2006). John Hillcoat prende spunto dal romanzo di Cormac MCarthy per descrivere una terra diventata un deserto gelato abitato da pochi sopravvissuti. Nell’assenza di leggi la natura belluina dell’essere umano libera l’istinto di sopravvivenza allo stato puro; ecco che bande di criminali e cannibali impongono la legge del più forte, la legge del terrore. Anche la figura di un padre buono (Viggo Mortersen) crolla davanti alla possibilità di fare incetta di provviste e scapito di altri.
Quando Alejandro González Iñárritu decise di girare Revenant – Redivivo (2015 The Revenant), il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki consultato sullo stato delle riprese dichiarò:
“Stiamo lavorando in esterno con la luce naturale… la temperatura è scesa fino a -30°, e abbiamo avuto delle difficoltà con le attrezzature. A un certo punto è diventato così freddo che i nostri schermi si sono bloccati”.
Il film fu girato tra Columbia britannica, Canada e Terra del Fuoco per consentire di girare interamente con la luce naturale quasi tutto il film ambientato tra i ghiacci. Le condizioni climatiche costituiscono il raggelante teatro in cui monta la tensione tra protagonisti che lottano per la sopravvivenza. “Io non ho più paura di morire ormai. Sono già morto” dice il Capitano Glass (Leonardo di Caprio) assunto come guida nel 1823 nel Nord Dakota. Tra gli attacchi degli indiani Arikara, l’aggressione dell’orso grizzly e il tradimento degli infami, l’eroe affronta tutte le insidie con disperato coraggio. L’ultima sequenza lo lascia steso sulla neve forse sopravvissuto, forse sul punto di morire.
Ma la paura di soccombere in ogni momento fu anche quella della troupe cinematografica deliberatamente impegnata in un’esperienza che poteva decretarne la fine.
Le armi della natura matrigna sono molte e anche l’animale è responsabile di catastrofi.
Quando Steven Spielberg gira Lo squalo (Jaws del 1975) non si limita a creare quelle straordinarie scenografie che gli valsero tanti premi, ma – buon allievo di Hitchcock – incentiva la suspence evidenziando le sottili dinamiche che la presenza del mostro fa esplodere tra gli abitanti dell’isola. Intanto per buona parte dell’intreccio il mostro marino risulta di difficile identificazione, proprio quando lo credono sconfitto ricompare più aggressivo che mai. Si tratta di uno squalo bianco e il collegamento con un altro archetipo letterario è immediato, il Moby Dick di Melville, senza dimenticare Il vecchio e il mare di Hemingway, entrambi forniti di corrispettivo cinematografico. Come i suoi predecessori è uno squalo astuto, capace di aggirare ogni trappola, la frustrazione esacerba il terrore: quale è la legge naturale che consente ad una specie inferiore di scatenare la sua forza bruta sull’essere più intelligente del creato? L’impresa ha un prezzo altissimo e un dubbio sorge spontaneo: la vita di uno squalo valeva davvero tante vite umane?
L’elemento catastrofico di enorme successo e, si vuole sperare, anche la ricca riflessione che ne scaturisce ha spinto i produttori a replicare il tema fino allo Squalo 4. Ma Spielberg si è rifiutato di dirigere i sequel ormai preso dalla regia di Incontri ravvicinati di terzo tipo.
Il Body horror e la paura del Futuro
Philip Brophy, artista australiano, usa per la prima volta la definizione di body horror all’inizio degli anni Ottanta. Si tratta di un sottogenere dell’horror che produce effetti orrifici attraverso la deformazione del corpo umano devastato da contaminazioni letali, mutilazioni, patologie deformanti e soprattutto procedimenti di tipo cyber. Si tratta di un filone vario e prolifico che da una parte affonda le radici nelle turbe mentali più profonde e nella loro degenerazione, dall’altra si proietta nel futuribile dove procedimenti tecnologici sofisticatissimi permettono manipolazioni corporee talora imposte da misteriose autorità superiori quando non sono deliberatamente scelte dal soggetto coinvolto. Insomma, il dramma psicologico si ramifica nell’addiction di un mondo ad altissimo tasso tecnologico. Una fusione che davvero spaventa, e non solo nelle sale cinematografiche. Sembra che il culto dell’io sia destinato ad una deriva che vede il corpo passare dalla prigione del narcisismo a quella della macchina; inoltre: quali interessi si nascondono dietro la manipolazione dei corpi? Si tratta sempre di menti criminali o anche di un’estetica della crudeltà che gode nel deturpare la presenza umana? “Non più un corpo da mostrare, quanto un corpo in mostra. L’installazione di un’idea” come dice Pier Maria Bocchi nel numero di settembre 2025 della rivista Cineforum n.19. L’articolo ha il merito di fare una sintesi intelligente dello sviluppo del genere body horror che, partendo dal primo David Cronenberg (il capostipite del genere), trova successivamente interpreti sempre più dissacranti e feroci.
È proprio Cronenberg a dirigere La mosca (1986 The Fly). Vi si narra la storia di Seth Brundle, uno scienziato che ha inventato un ordigno capace di realizzare il teletrasporto. Quando per motivi del tutto personali (controllare la donna di cui è geloso, la buona vecchia gelosia…) decide di teletrasportare sé stesso, non si accorge che nella capsula metallica c’è una mosca. Avviene così una fusione tra l’insetto e l’uomo che si deforma fisicamente e caratterialmente. L’essere ibridato destabilizza e terrorizza chi ha la ventura di essergli prossimo.
Nel suo ultimo film Segreti sepolti (2024 The Shrouds), Cronenberg narra di un vedovo imprenditore che mette a punto una macchina in grado di osservare la salma dei cari estinti mentre si decompongono nella bara. L’occhio umano si insinua a profanare anche l’ultima intimità e trasforma il ribrezzo in una nuova ripugnante forma di piacere.
Il meno orrifico dei diversi body horror realizzati dal regista canadese è certamente quello più inquietante: Crimes of the Future del 2022. Il film si apre con la sequenza in cui una madre soffoca suo figlio, la donna sì è spaventata nel vederlo rosicchiare con gusto un secchio di plastica. Teme di vedere in lui una creatura con caratteristiche genetiche anomale e se ne libera. La storia si ambienta in un imprecisato futuro in cui la biotecnologia è ormai in grado di interfacciarsi con le funzioni corporee degli individui e di controllarle a distanza senza generare alcun dolore, i corpi vivono in una sorta di permanente anestesia. Le asportazioni chirurgiche diventano spettacolo mentre il delirio di onnipotenza serpeggia tra gli umani. Si offrono opportunità anche al mondo dell’arte che porta il proprio segno fino alla manipolazione dei corpi. Body art oltre ogni limite e che, oltre a deformare le fattezze esteriori, deforma quelle strutturali al punto che la vista di un uomo con labbra e occhi cuciti e ricoperto da numerose orecchie innestate in ogni parte del corpo costituisce una performance artistica di successo. Ma la repulsione nello spettatore non nasce dalla crudezza delle immagini, che anzi sfumano nell’estetismo della finalità artistica, quanto da quello spostamento di confini dell’idea di rispetto del corpo. Il corpo, come unità di misura del piacere e del dolore, quindi della vita, demanda la propria autonomia a logiche eterodirette secondo percorsi sconosciuti. Il cadavere del bambino soffocato da sua madre – dimenticato nel corso di tutto l’intreccio – riemerge alla fine, ottimamente conservato e disponibile a ulteriori esperimenti.
François Truffaut nel 1966 ha sceneggiato Fahrenheit 451 dall’omonimo romanzo di Ray Bradbury, altrettanto faceva il britannico Michael Radford con 1984, il romanzo di George Orwell, due distopici sui quali si sono formati generazioni di studenti.
Abbiamo discusso dello psicoreato e della neolingua; abbiamo temuto che un giorno i pompieri avrebbero incendiato le nostre biblioteche e tutti ci siamo sentite Clarisse o Guy Montag pronti a farci testimoni di un’opera letteraria da tramandare ai posteri. Ma ormai il portato spaventoso del Grande Fratello si è stemperato in una trasmissione televisiva di dubbio gusto, e viviamo saltellando tra un social e l’altro noncuranti dell’Occhio che discerne e determina anche i nostri desideri.
Quali saranno i territori della paura nel futuro?
L’invasione degli alieni o piuttosto l’alienazione dai nostri stessi istinti?
La catastrofe nucleare o l’anestesia interiore?
L’ibridazione dei nostri corpi o lo spegnimento di quella scintilla di curiosità e ribellione che ci rende umani?
Prima o poi tutti affronteremo l’ultima paura, l’unica che ci accompagna da sempre. La partita a scacchi col macabro cavaliere nero di Ingmar Bergman la giocheremo tutti, e tutti saremo perdenti.
Il cinema qualche suggerimento ce lo sta lasciando.





