Ci sono tanti motivi per avere paura. Nel giro di pochi anni si sono accavallati focolai di crisi sempre più drammatici: il crollo finanziario, le catastrofi ambientali indotte dal mutamento climatico, la pandemia, le guerre, l’inefficacia delle istituzioni di diritto internazionale. Le grandi esperienze collettive di paura sono in grado di mettere in discussione, o di svelare, la struttura del mondo. Nel collegare il tragico alla distruzione di qualche valore, Max Sheler sosteneva che la distruzione rivela qualcosa di costitutivo del mondo. La distruzione mette in stato d’accusa il mondo che l’ha resa possibile. Il mondo comincia ad apparire diverso, non più è ciò che si pensava che fosse. Con la distruzione di determinati valori sono state immesse nella realtà possibilità inassimilabili dall’idea di mondo condivisa precedentemente. Gli eventi distruttivi, se da una parte rendono irriconoscibile il mondo, dall’altra lo rivelano, ci mettono nella condizione di comprenderlo.

A rafforzare l’impressione che il mondo stia cambiando in modo irreparabile contribuisce il diffuso senso di impotenza e l’insicurezza cronica. Il legame tra le spinte vitali e l’ordine costituito rischia di trasformarsi in una netta antitesi. Anziché basarsi sul desiderio collettivo di pace e sulla spinta di ciascuno a migliorare la propria condizione, l’ordine costituito sta accentuando la propria tendenza a imporsi contro tali esigenze, finendo col fare proprio dell’insicurezza cronica e della minaccia di impoverimento i veri pilastri del proprio dominio. D’altra parte, le spinte vitali, una volta espulse dall’ordine costituito, prendono forme imprevedibili, a volte disperate, spesso distruttive. Ci sono tanti motivi per aver paura. Ma tutto può restare entro la dimensione del consueto, dell’ordinario, se uno sguardo attivato non lo rende straordinario. È solo allo sguardo impegnato e al timore di non poter dispiegare la nostra potenza di vita che possiamo designare come ingiustizia alcuni elementi della realtà fino a quel momento tollerati.

Quando diciamo «abbiamo paura di …» in genere associamo alla emozione il significato negativo dell’oggetto di cui aver paura. Non siamo stati educati a tollerare le emozioni spiacevoli che creano un certo stato di tensione. E così perdiamo, senza accorgercene, quella risorsa che può spingerci all’osservazione, a renderci attenti, capaci di affrontare seriamente i pericoli, anche i meno evidenti tra cui i conformismi sociali e le idee dominanti che lasciano le cose come sono. La paura in realtà può essere un’ottima consigliera, a patto però che sia ragionevole e non superi certi livelli di apprensione, di ansia, trasformandosi in terrore e angoscia (la radice -ang rimanda al restringimento, e dunque ad una permanente restrizione dell’animo). Chi ne è assalito si ritrova impoverito, incapace di rapportarsi alla totalità della realtà, interpretata sempre sotto il segno ansiogeno della minaccia. Non voglio sottovalutare la paura ad alta intensità. Non penso che agli esseri umani sia possibile giungere definitivamente a non temere. L’esposizione al mondo nella fragilità della condizione umana produce fondati motivi di paura. Soprattutto chi ama si ritrova spesso con il cuore gonfio di timore che nasce dalle preoccupazioni per le persone amate.

Tuttavia la paura non va intesa come qualcosa che semplicemente inibisce e blocca l’azione, ma come una vera e propria forma di intelligenza delle situazioni. Tendiamo a mettere in atto strategie psichiche di fuga per evitare il coinvolgimento emotivo e attivo, quando proprio la paura paradossalmente ci consentirebbe di prevenire il diniego di quegli aspetti della realtà che non vogliamo vedere. C’è tutta una pratica dell’intelligenza connessa alla paura che è da sviluppare in modo tale da renderla presentimento, sospetto, apprensione, inquietudine. Quando non è totalizzante il timore mobilita l’azione, spinge alla ricerca di soluzioni. La paura ci coglie spesso di fronte ad una situazione inattesa e nuova, in cui non abbiamo il controllo degli eventi e, se sappiamo ascoltarla, ci mostra, al di fuori di ogni metodologia razionalistica, significati e priorità essenziali per le nostre vite. Per questo, oggi più che mai, avere paura è diventato un dovere morale, in quanto preoccupazione che ci consente di prevedere le situazioni, di mobilitarci, fino a vincere l’inerzia del mondo.

Questo approfondimento è tanto più importante in quanto abbiamo perso il contatto con la misura delle reali minacce, per cui non siamo neanche in grado di risponderne. C’è da aver paura, nelle condizioni date, di un cattivo esame di realtà: seguire i pregiudizi, il conformismo, la sottomissione economica, gli stili di vita acquisiti, ci impedisce di prevedere gli eventi tragici. La difficoltà di capire il mondo che cresce intorno a noi per un eccesso di eurocentrismo, la tendenza al continuo invecchiamento di una popolazione dedita al solo mantenimento di beni sempre più precari, condiziona fortemente la politica, il modo stesso di pensare, di desiderare delle giovani generazioni, spesso assuefatto a quello delle generazioni più anziane. Il fatto di ritrovarci completamente dipendenti dal grande Altro USA, se al momento appare come una necessità, ci fa permanere al contempo in una condizione passiva, parassitaria, e ci rende assuefatti alla distruzione (se i nostri alleati ce lo chiedono) pur di mantenere gli antichi privilegi e “tornare grandi”.

Se riusciamo a fare questo impediamo alla paura di assumere una forma psichizzata, psicologizzata, interiorizzata, come se fosse semplicemente un’impressione immediata legata ad uno stato psicofisico. C’è un potere cognitivo delle emozioni da riscoprire e da porre al servizio di principi etici. Diversamente dalla scienza della psicologia, che stabilisce le determinanti fisiologiche, ambientali, familiari del soggetto, l’etica si presenta piuttosto come un’antipsicologia, nella misura in cui le azioni, come vedremo, sono un dare forma alla propria libertà.

Come abbiamo visto nel precedente articolo, proprio perché ci troviamo a vivere un tempo di profonda instabilità, dobbiamo riconsiderare la paura all’interno di un mondo dominato dalla incertezza. Avere un appropriato timore si riferisce al fatto di aver sviluppato innanzitutto un sentimento adeguato alla consapevolezza dei rischi e alle proporzioni assunte dal pericolo, senza rimanere alla mercé di un clima emergenziale dettato da emozioni irrealistiche. Un mondo che sembra privo di timori deve diventare oggetto di preoccupazione per la scelta di affidare totalmente alla tecnoscienza il compito di far fronte all’incertezza, senza tener conto dell’etica e della politica per la costruzione di una dimensione comune. Come si vedrà, con etica intendo la maniera in cui ciascuno si rapporta a se stesso e, attraverso il rapporto che costruisce con sé, si autorizza a decidere in autonomia, a fare una scelta piuttosto che un’altra. In una dimensione etica diventano cruciali domande tipo: «perché osservo una norma morale?», proprio perché ci possono diverse ragioni, che fanno tutta la differenza. Mi comporto in un certo modo perché me lo impone la mia religione, perché rispettare una norma sociale mi fa apparire “normale”; oppure perché quella condotta è prova di un rapporto “politico”, attivo, dinamico con me stesso. Vediamo che si può adottare un medesimo comportamento a partire da stili etici diversi, o meglio morali o propriamente etici.

Su questo punto ci sono stati tanti filosofi decisivi, da La Boétie a Thoreau, da Kant a Nietzsche fino a Hannah Arendt. Ad ogni modo per questa distinzione dell’etica dalla morale Nietzsche rappresenta uno spartiacque. È lui il grande filosofo dell’etica “immorale”[1] (non dimentichiamo che scrive una «genealogia della morale» e non una genealogia dell’etica), decisiva anche per la psicoanalisi. Se ci si riferisce primariamente alla rispettabilità sociale, o alla simmetria dei rapporti con gli altri esseri umani, se si ammette che da qualche parte c’è uno standard che ci permette di prendere le misure alle nostre azioni, si sta dentro una morale. Nell’etica, al contrario, quello che conta è la mia coerenza in relazione a me stesso o, in termini lacaniani, la mia fedeltà al mio desiderio, la rinuncia completa al riferimento al «grande Altro» (a cui fa assegnamento la morale) proprio come condizione essenziale di un’etica veramente autonoma. Nulla va dato per scontato: né le certezze apprese, né le convenzioni sociali, né i rapporti economici, né i principi morali. Qui ritroviamo il senso della responsabilità politica, la vera chiave di volta per capire cosa è propriamente etico e cosa consente di passare dalla paura alla dissidenza. Lo vediamo bene nel messaggio etico della psicoanalisi che è tutt’altro che un invito a liberarsi dal peso delle proprie responsabilità per dare la colpa all’Altro (come dire, dal momento che l’Inconscio è il discorso dell’Altro, io non sono responsabile delle sue formazioni, è il grande Altro che parla attraverso me).

Dopo quella di paura, anche la nozione di “responsabilità” deve essere riconsiderata all’interno di un mondo dominato dalla incertezza. Questo significa decidere di mettersi in una relazione stretta con il mondo. Se la paura perde il suo significato tutto interiorizzato di timore patologico e assume quello di timore appropriato, allo stesso modo la responsabilità deve abbandonare il suo carattere morale, sanzionatorio, e acquisirne uno più pragmatico, come necessità di affrontare l’incertezza per salvaguardare il destino della vita umana e della Terra. In questo modo, la paura non cessa ma si trasforma in impegno responsabile, in un vincolo etico che accompagna le scelte politiche. In un mondo dominato dalla incertezza anche la responsabilità dovrà riconfigurarsi in base alla imprevedibilità delle conseguenze dei nostri atti. Assumere questa incertezza vuol dire avere il coraggio dell’epoca.

Sì, ma come praticare il principio di una paura responsabile?
Cosa può impedire l’azione mobilizzatrice della paura? Cosa temere?
Perché non si reagisce alla disperazione dell’ordine attuale?
Se ci si chiede cosa impedisce l’esercizio di un sano e appropriato timore bisogna rispondere innanzitutto l’avere paura della paura, temere il timore ragionevole. Troppo spesso il presente situazionale ci appare come una dimensione angosciante e sempre sfuggente, e siamo impossibilitati a viverlo nella sua complessità, anche contraddittoria. E poi il diniego, lo constatiamo tutti i giorni. Nonostante i rischi siano concreti, si mettono in atto tutte le strategie per evitare ogni forma di coinvolgimento emotivo per non percepire i pericoli come presenti [2].

Oggi il problema è capire perché la gente non si ribella. Di ragioni per smettere di accettare l’attuale stato di cose, il loro corso catastrofico, ce ne sono tante. L’approfondirsi delle ingiustizie sociali e delle disuguaglianze economiche; la globalizzazione che ha lasciato libero corso ad un capitalismo sfrenato, totale, il cui risultato è la formazione di una minoranza ricchissima di fronte ad una stragrande maggioranza di individui che si trascinano sotto il peso del loro debito[3]. Si dirà: «cosa volete, non si può andare contro le leggi dell’economia. I numeri sono numeri». Anche se la disperazione sociale e la miseria si generano su un orizzonte di conformità alle leggi economiche, sarà la realtà dei numeri a giustificare comunque tutto.

È una vecchia storia. Non ci siamo mossi di un passo dalla problematizzazione del tema della giustizia nel dialogo La Repubblica di Platone, dove un personaggio, Trasimaco, ad un certo punto irrompe nella discussione e rimprovera i partecipanti. Basta con questi vuoti discorsi! Volete che vi dica io ciò che tutti sanno, ma che nessuno osa dire? Giustizia non è altro che l’interesse del più forte camuffato da interesse comune. Nient’altro che puri rapporti di forza. Ciascuno persegue sempre ed egoisticamente il proprio vantaggio, il proprio profitto. La storia dà ragione al furbo, al più astuto, al più violento. Trasimaco non si lascia ingannare dalle chiacchiere. Duro realismo. Ecco il mondo com’è, abbiate il coraggio di guardarlo in faccia, invece di cullarvi con discorsi inutili. I bei discorsi non fanno altro che dissimulare la sola realtà della condizione umana, che è fondata sul rapporto di sottomissione. 

Tuttavia, ci chiediamo, se il vero coraggio non sia quello di non lasciarsi scoraggiare da ciò che accade innanzitutto e per lo più. Perché il dogma dei numeri non viene valutato sulle conseguenze che produce sulla realtà, sulla vita delle persone? Perché non giudicare le azioni dei governi sulla base della realtà del buon vivere, del senso di giustizia o della solidarietà? C’è un forma di politica assolutamente minoritaria, che deve mostrare la possibilità di una società più giusta;, e c’è n’è un’altra più facile da attivare perché si adegua al mondo così com’è, in cui ogni essere umano pensa al fondo che ciascun altro suo simile potrebbe essere capace di qualunque cosa pur di ampliare il suo potere, e quindi sa di doversi difendere con ogni mezzo per parare in anticipo i possibili inganni e le possibili aggressioni degli altri (“guerra di tutti contro tutti” di Hobbes). La posizione di realismo è evocata come una concezione responsabile e pragmatica di fronte alla complessità del reale, in quanto capace di criticare come utopica o pericolosa qualunque altra ipotesi di politica radicale, ma invero dissimula la sua realtà di ideologia reazionaria. Con il suo cinismo la politica del realismo non ha fatto che tracciare il solco nel quale ha proliferato una rete di centri di dominio cresciuti alla frontiera tra politica ed economia, i quali hanno reso cronica l’insicurezza pur di mantenere intatta la propria egemonia. Una insicurezza naturalmente generatrice di paura.   

Laddove denaro e potere tendono sempre più a concentrarsi in pochissime mani, la loro simbiosi svuota dall’interno la democrazia, il mercato e lo stato di diritto. Oggi vediamo il dominio del mondo conteso tra forze che non fanno distinzione tra pubblico e privato, economia e politica. E così alle persone non resta altra scelta che la «servitù volontaria» all’una o l’altra forza per ottenere benefici e protezione, più apparenti che reali. Avendo scelto al momento di far quadrato intorno ai propri privilegi, ovvero rinunciando a reinventare l’ordine del mondo per adattarlo alle spinte vitali di autodeterminazione dei popoli, la difesa dello status quo da parte dei governi sta esasperando i processi di distruzione. Tutto viene sempre giustificato da una legge che si presenta come non contestabile, che poi è la legge superiore dell’interesse e dell’avidità del singolo come diritto e della ineluttabilità delle statistiche anonime, che hanno portato all’impoverimento delle classi medie. Con la scomparsa della classe media a svanire è l’esistenza di un mondo comune, in cui gli ideali di bene pubblico e di utilità generale avevano la funzione di preservare la possibilità stessa della democrazia.

Eppure le disuguaglianze non provocano una legittima e organizzata ribellione. Forse perché la condizione dei più agiati suscita nei meno abbienti l’amaro desiderio di assomigliargli, la speranza di future rivincite. Del resto, non è rimasto altro nella nostra cultura che consumare ad oltranza, lasciandosi assorbire dal presente in un facile appagamento.

Questo nostro mondo, che già da decenni abbiamo accettato che venga costruito, le generazioni future non potranno non giudicarlo di un’irresponsabilità mortale. Perché davanti all’imminenza della catastrofe restiamo ancora oggi inattivi, cercando di guardare altrove? Perché abbiamo lasciato fare, comportandoci da spettatori del disastro? Ciò che sconvolge è l’assenza di reazione, la passività. Perché è così facile essere d’accordo sul degrado dell’ordine attuale del mondo e così difficile opporsi ad esso, disobbedirgli?[4]

Si continua a ripetere che disobbedire è da irresponsabili, che irresponsabile è colui che infrange la regola comune, che non rispetta la legge. Il termine “responsabilità” è ampio. C’è quella di chi dirige, di chi accetta compromessi, prevede le conseguenze, ricerca accordi, equilibri, insomma di chi tiene conto del mondo così com’è. Essere responsabili significa essere pragmatici, venire a patti con il reale e rinunciare ai sogni. Il responsabile non è forse chi anticipa, calcola, risolve, chi lavora per ottenere determinate conseguenze? Ma c’è un’altra forma di responsabilità, nella quale il soggetto si sente convocato in prima persona, in modo assoluto e illimitato. Epitteto diceva che ciò che dipende da te non è mai ciò che ti accade in quanto tale. Non si padroneggia il corso delle cose, si è sempre dentro serie causali complesse e ramificate. Quello che però dipende assolutamente dalla responsabilità di ciascuno di noi è il significato che darà a quanto gli accade.

Si tratta di una responsabilità situata e radicale, la stessa che ritroviamo nell’etica della psicoanalisi. Il grande passo di Freud è stato di tenere insieme una nozione indebolita del soggetto (che non è padrone a casa sua) con una radicalizzazione della sua responsabilità. La psicoanalisi ha promosso un aggiornamento dei limiti del concetto di responsabilità per ampliarne la funzione. Ciò che conta davvero non è l’adeguamento delle nostre azioni ad un codice morale, ma se queste sono coerenti o meno con il nostro (desiderio) inconscio. Se l’inconscio è il luogo del contesto familiare, sociale e storico in cui si è cresciuti (grande Altro di Lacan), fatto di significanti che hanno fabbricato la mia esistenza, allora la responsabilità si dilata: e così si diventa responsabili di tutto ciò che l’Altro ha fatto di noi. Per questo motivo, dice Recalcati, Lacan potrà affermare che con l’invenzione freudiana dell’inconscio anziché trovare un alibi, il soggetto sarà costretto a riconoscersi come sempre responsabile.[5]   

Aggiungo: in quanto sono responsabile dell’inconscio, come luogo in cui il soggetto si è iscritto simbolicamente (l’Altro) e non come il luogo “privato” del soggetto, allora l’oggetto della mia responsabilità è anche il mondo, e la responsabilità diventa globale. Non possiamo non essere solidali contro le ingiustizie del mondo, non è possibile fare come se non ci riguardassero. Siamo sempre legati a qualcosa dove si decide del significato e del destino dell’umanità a cui apparteniamo. Non è possibile restare indifferenti, fare come se l’impotenza politica possa esonerarci dal reagire. Non è possibile non voler vedere o sapere, richiamarsi ad una neutralità sovrana (dire non è un mio problema), perché significherebbe nascondere a se stessi un’evidenza, che in fondo ciascuno porta in sé la responsabilità (la cura) del mondo. Non siamo lontani dal Sartre che scrive: «la qualità propria della realtà umana è di essere senza scuse». Nessuna scusa per non lottare contro questa o quella ingiustizia. Se sono responsabile per principio, allora con la mia inazione mi rendo complice. Sono io a essere immerso in questo mondo.

La voce della responsabilità ci impone un certo rapporto con noi stessi, a partire dal quale rispettiamo o trasgrediamo la legge pubblica. Che rapporto c’è tra l’obbedienza e la disobbedienza? Generalmente obbedire è dire sì all’altro, che implica al contempo un no» a se stessi. È come se non ci fosse un soggetto. Obbedisco perché non voglio noie, perché ho paura, oppure perché non voglio rischiare, o per il terrore di ritrovarmi isolato, stigmatizzato; o ancora, considerando le inutili lotte, penso che mi costerebbe troppa inquietudine credere di poter ribaltare le condizioni, per cui alle delusioni possibili preferisco la dolcezza della rassegnazione; oppure obbedisco perché mi hanno insegnato che la superiorità di alcuni su altri è un fatto naturale, e che ci si deve sottomettere alle leggi perché, diversamente, la disobbedienza vorrebbe dire anarchia. È la paura che il disordine politico provocato dall’insubordinazione si riveli ancora più terrificante dell’ingiustizia del governo in corso (forse dietro agisce la forza della cultura cristiana dell’obbedienza come via prioritaria alla salvezza). Se, come in Hobbes il patto primario è motivato dalla paura di morire, ogni atto di disobbedienza sarà ugualmente sospettato di reintrodurre l’anarchia primigenia. Meglio allora l’ingiustizia del caos. Insomma, sembra che tutto vogliamo, anche forme alternative di «servitù volontaria» (alle quali spontaneamente ci accomodiamo) piuttosto che ritrovarci a tu per tu con la nostra responsabilità. Le strategie che mettiamo in campo consistono nel sottrarci alla partecipazione attiva alla resistenza, agli impegni forti per una causa giusta. Ci diciamo: «Ci sono tanti altri più qualificati di me, e in ogni caso, un altro lo farà al posto mio. Tanto, che differenza fa?»

Oltretutto il totalitarismo dello scorso secolo ci ha reso ancora più sensibili alla mostruosità inedita del funzionario zelante, dell’esecutore irreprensibile. Ciò che regola la condotta di questi «mostri di obbedienza» non è più la ragione dei diritti e dei valori, quanto la ragione tecnica, efficiente, dell’amministrazione, quella produttiva e utile, la razionalità manageriale del calcolo. Qui non si tratta più di seguire la ragione dell’universale; si tratta di rendersi automi. La contrapposizione non è più tra l’uomo e il selvaggio da educare, quanto tra l’uomo e la macchina. In questo caso la disobbedienza diventa un gesto che umanizza. Di fronte alla inconfessata autoreferenzialità delle leggi economiche e alle decisioni degli esperti frutto di anonime statistiche, la disobbedienza diventa una dichiarazione etica, una manifestazione di umanità.

In questo senso quando parlo di trasgressione intendo una disobbedienza legittima e rischiosa, come ad esempio rifiutarsi di ottemperare agli ordini di un superiore incompetente o di obbedire a leggi ingiuste; oppure contrastare gli abusi di potere. Una disobbedienza che costa esige uno sforzo, implica la contestazione delle gerarchie ma anche la rimessa in discussione delle abitudini. Pensiamo a Socrate. È nota la sua vicenda in prigione, di lui condannato a morte dalla città di Atene, che di fronte all’occasione unica di salvarsi la vita fuggendo, dice no, non precipitiamo, indaghiamo piuttosto. Possiamo immaginare la vocina del suo daimon esortarlo: «No, Socrate, non scappare come un volgare delinquente». Volendo salvare precipitosamente il tuo corpo rischi di perdere l’anima. E così, dopo essersi preso tempo per soppesare le ragioni, Socrate finisce per concludere che è meglio per lui rimanere in prigione e attendere tranquillamente la morte. Socrate allora sarebbe morto professando un’obbedienza politica passiva, rassegnata? O bisognerebbe invece pensare che questa accettazione della punizione sia un’obbedienza sovrana? Probabilmente ciò che c’è di inquietante nella sua scelta di restare in carcere è la dimostrazione che anche la sua condanna è lui a deciderla? È Socrate a scegliere di obbedire. Il suo daimon esprime una disobbedienza non sostenuta da una coscienza di valori trascendenti, ma è l’espressione di chi vive l’esperienza di un’impossibilità etica. La sola cosa che conta è la salvaguardia delle sue convinzioni, obbedire fino in fondo ai suoi principi.

Come si vede, la responsabilità mette in moto un processo di soggettivazione. Il soggetto della responsabilità sono io in quanto non sono gli altri. La filosofia indica verità impossibili, zone limite tra un al di qua e un al di là, spazi etici che per lo più tendiamo ad evitare. Lo vediamo nella esperienza del dissidente civico, il quale sperimenta un’impossibilità che lo obbliga ad una rottura: non è possibile continuare così. Il dissidente si sente obbligato a fare qualcosa, per lui è impossibile non farlo, non può più continuare a fare come se non sapesse. È la dissonanza di una voce che si fa sentire nel suono monocorde del conformismo e grida la sua impossibilità di continuare a obbedire. Questa doppia negazione non è dialettica: è rottura, è esplosione.

Non bisogna sottovalutare il ruolo della negazione che pone limiti all’inaccettabile. Oggi, di fronte alla tendenza incurante della globalità, l’unica posizione possibile è quella di dire no. Ogni lotta per l’emancipazione comincia con un rifiuto, con una rottura che è espressione di una negatività legata alla potenza che riusciamo a sperimentare. Tale rifiuto determina un punto di non-senso che interroga l’insieme dell’ordine stabilito. All’inizio tale “non” non contiene in sé nessun progetto, ma è la condizione necessaria per l’emergere di ogni progetto, nel senso in cui apre uno spazio di nuovi possibili, in cui si genera un immaginario sovversivo che interroga le convenzioni e i saperi precedenti. Rimanere fedeli a questo immaginario sovversivo presuppone di passare a una forma di resistenza che chiama ad agire e a creare del nuovo a partire da condizioni date, e non a subirle passivamente.

Questa rottura-rifiuto è anche un’obbligazione. Ai giudici che gli propongono in cambio della vita di smettere di interrogare i suoi concittadini sulla piazza del mercato, Socrate risponde che è impossibile: come un oplita[6], deve tenere il posto. Quando resisto, quando dimostro perseveranza e mi obbligo a restare fedele alla postazione superando la paura, obbedisco o comando? Comando a me stesso di obbedire. Il comando qui struttura l’obbedienza. Obbedendo, comando a me stesso di obbedire.  E mi obbligo a esaminare, giudicare, valutare ciò a cui obbedisco, perché obbedire impegna.

Siamo lontanissimi dall’idea del consenso, in particolare nella versione che ne dava Hobbes.  Abbiamo visto come, secondo quest’ultimo, il punto di arrivo della politica è l’istituzione di una divisione tra, da un lato, l’autorità pubblica che fa le leggi e impone un ordine pubblico, e, dall’altro, la massa dei cittadini che abbandonano il loro diritto naturale e si rassegnano a obbedire per ottenere sicurezza. Qui è il contrario: all’interno della stessa forma etica dell’obbedienza io ho la possibilità di disobbedire. Posso rifiutarmi a me stesso di obbedire perché sono io che comando, e comandando a me stesso posso obbedire. L’autentica obbedienza politica implica l’instaurazione di un rapporto di comando da sé a sé. Non esiste coscienza di sé altro che nel dialogo del sé con sé. L’io non è un’entità fissa, unitaria, ma come dice la Arendt, è un «due in uno»[7], è il nome di uno scollamento. La forza di disobbedire all’altro mi viene allora da un’obbedienza a me stesso, da un sé sovrano, che detiene la forza di decidere. Disobbedire è qui obbedire a sé.

Qui tocchiamo lo specifico umano, che è uno spazio vuoto, o meglio uno spazio antinomico di gioco. Essere e non essere, siamo e non siamo. Siamo e non siamo il nostro corpo, la nostra passione, la nostra intelligenza, la nostra ragione.  Questo spazio insaturo è abisso, terrore, è il caos come indeterminazione, imprevedibilità, ambiguità, libertà. Occorre una decisione che mi consenta di mettere una distanza tra me e me, come se mi potessi guardare da fuori. Occorre far essere questo vuoto come spazio di gioco, come rapporto tra l’io e l’io, e non richiuderlo semplicemente come identità rocciosa. Non è questa la cosa fondamentale nella vita: essere qualcuno. Sì, poi comunque si diventerà qualcuno. Ma se si crede che questa sia la questione essenziale, che la cosa più importante sia saturare il vuoto, ci sarà sempre un’ombra che ci perseguiterà, e che per liberarcene saremo costretti a vederla negli altri. Il compito fondamentale per ciascuno di noi è sperimentare questo vuoto, sostenere l’indeterminazione di questo spazio (altrimenti la paura sarà angoscia, terrore da fuggire) e muoverci al suo interno, farlo essere libertà. Uno, nessuno, centomila.

Kant chiamava antinomia la forma più profonda del sentimento del mondo, della vita stessa. Esiste la libertà, l’autonomia, o tutto avviene in modo deterministico? C’è una composizione a-simmetrica, ci sono due forze che si devono decidere in un senso o nell’altro. Nella pura simmetria le forze si annullerebbero e si vivrebbe in un’apatica assenza di stimoli e di slancio vitale. Ciò che spaventa è che la libertà si trovi sulla perpendicolare della nostra responsabilità, così come la responsabilità si trovava sulla perpendicolare della paura. La composizione tra responsabilità e irresponsabilità, tra libertà e servitù volontaria, è per forza di cose asimmetrica e ciò che fa pendere il piatto da una parte o dall’altra è l’azione del cuore detta coraggio: il coraggio della paura. Dal coraggio della paura al coraggio della responsabilità, fino al coraggio della libertà.      

La vita etica è la vibrazione di questo rapporto, di questo «due in uno», della paura che si risolve in responsabilità e poi nell’atto libero. Il nostro sé ha questa intimità politica. La vita etica ha tutto il travaglio della dissidenza, della liberazione dalle determinanti. È un dare forma e una liberazione allo stesso tempo. Questo scollamento, questa vibrazione, è il lavoro critico, l’indagine socratica. È il pensiero pensante (e non un pensiero pensato) che si apre alle esitazioni della coscienza. Da questo punto di vista pensare è disobbedire, disobbedire alle proprie certezze, alle proprie abitudini e comodità. Socrate invita ciascuno a far vibrare in sé la dissonanza del «due in uno», che è pensare, prendersi cura di sé in quanto prendersi cura degli altri. Perché è l’umanità ciò che ci scolla da noi stessi, è questa voce che ci inquieta e ci fa vibrare.

L’umanità profonda dà prova di sé quando ciascuno rifiuta di chiamarsi fuori e lasciare ad un altro il compito di restaurare la giustizia, quando ciascuno si scopre insostituibile nella cura del mondo. Quando tanti ciascuno avvertono la necessità di non obbedire più e sentono l’urgenza di reagire, si produce una co-vibrazione di numerosi sé, indelegabili e insostituibili nella loro sovranità, allora l’insubordinazione collettiva diventa un movimento storico. Si torna all’essenza vitale del contratto. Tanti sé formano un corpo, una società, non quando costruiscono l’unità di tutti a prezzo della rinuncia di ciascuno, ma quando disobbediscono collettivamente portando avanti un progetto di vita insieme alternativo, quando fanno vibrare un’autentica promessa sociale.

NOTE

[1] Mi sembra che questa caratterizzazione dell’etica abbia in sé un tratto distintivo di virilità, che emerge in rapporto allo sguardo di una donna rivolto ad un uomo ideale. Secondo Zizek, la formulazione più precisa dell’etica immorale è stata fornita da Ayn Rand nel dramma La notte del 16 gennaio: «…se date valore a una forza che non ha altro motore che se stessa, a un’audacia che non riconosce altra legge che se stessa, a uno spirito che non ha altra giustificazione che se stesso; se siete capaci di ammirare un uomo che, a prescindere dagli errori formali che può aver commesso, non ha mai tradito la sua più autentica essenza; la sua stima di sé; se nel profondo dei vostri cuori avete provato un desiderio di grandezza e l’impulso a dare senso all’esistenza che vada oltre la vita delle persone che vi circondano…».

[2] Ciò non riguarda solo la singola persona. Come questa può non essere consapevole di soffrire forme di ansia o di depressione, anche un gruppo, una nazione o un’intera comunità globale, possono essere afflitti da forme di paura, insicurezza o da un senso di impotenza croniche. Quando gli stati d’animo persistono per lunghi periodi di tempo possono radicarsi in una modalità di lettura di tutti gli aspetti della vita e generare automaticamente forme di comportamento che finiscono per costituire la mentalità di una società. Se la realtà di una nazione o di una civiltà delude le aspettative, si abbandona il progetto di un’esistenza autodiretta in favore della subordinazione a ideologie o religioni.

[3] Con l’azionariato eletto a sistema, l’entità della speculazione finanziaria, il principio generalizzato dell’indebitamento e le accelerazioni consentite dalle nuove tecnologie, è un nuovo capitalismo che si è imposto da decenni, che squalifica il lavoro, esaurisce le forze e consuma il tempo.

[4] Per rispondere a questa domanda farò riferimento al lavoro di Frederic Gros sul tema della disobbedienza.

[5] In questa radicalizzazione della responsabilità si può cogliere il carattere fortemente dissonante della proposta psicoanalitica nei confronti della tendenza paranoica che sta assumendo l’etica del nostro tempo. La quale tende ad attribuire all’Altro le responsabilità del proprio male. Lo stile politico della paranoia si fonda sulla proiezione all’esterno di ciò che di se stesso il soggetto non è in grado di sopportare (Recalcati). 

[6] Nel modello oplitico il soldato sostiene con il braccio sinistro uno scudo rotondo (hoplon), che gli permette di proteggere contemporaneamente il proprio fianco sinistro e il fianco destro del vicino. La forza di questo modello sta nella costituzione di un corpo unico e solidale. Ciascuno viene protetto a condizione che protegga un altro. 

[7] C’è sempre Socrate in mezzo, di nuovo lui. Riportando una citazione dal Gorgia di Platone, la Arendt lo commenta magistralmente: «L’idea chiave di questo brano [del Gorgia] è «Io che sono uno solo» […] Il significato è chiaro: anche se sono uno solo, io non sono uno solo, ho un io e sono sempre in rapporto con il mio proprio io. Quest’io non è affatto un’illusione; si fa sentire parlandomi – io parlo con me stesso, non sono soltanto cosciente di me stesso. E in tal senso, benché io sia uno solo, io sono anche due-in-uno. E può esserci armonia o disarmonia con l’io. Se non sono d’accordo con altra gente, posso alzare i tacchi e svignarmela; ma non posso svignarmela da me stesso, e perciò cerco sempre di essere d’accordo con me stesso prima di prendere in considerazione tutti gli altri. Ecco perché allora è meglio patire il male che farlo: perché se facessi il male, sarei condannato a vivere assieme a un malfattore per il resto dei miei giorni, senza un attimo di tregua». Insomma, in quanto partner di me stesso, sono condannato sempre a vivere con quest’altro io. Evidentemente, però, considerando l’estensione del diniego sociale, questa convivenza con il malfattore non è un problema.  

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