L’AVVENTURA DELLO PSICOANALISTA INCOMPRESO: indagine sul rapporto tra Svevo e Weiss

Nel centenario della pubblicazione de “La Coscienza di Zeno”, caposaldo della letteratura del Novecento, nonché testo cui tutti hanno attribuito grande importanza per la diffusione di una certa idea della psicoanalisi, mi è parso opportuno ripercorrere le tappe del percorso che ha fatto avvicinare Svevo alla teoria freudiana, ma anche l’evoluzione del pensiero psicoanalitico nei confronti di questo romanzo.

Fin dal primo impatto con la coscienza di Zeno, chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la psicoanalisi non può che essere colpito – e disorientato – dalla distanza che intercorre tra la rappresentazione della psicoanalisi (e dello psicoanalista) che ne ha fatto Svevo e la realtà concreta di quella tecnica di cura. E devo confessare che questa fu anche la mia reazione, all’epoca: rimasi profondamente insoddisfatto di un modo di raccontare la psicoanalisi che non corrispondeva affatto alla mia esperienza. Di questa distanza Svevo non era certo consapevole, tanto che, come vedremo meglio più avanti, fu perfino sorpreso dal trattamento freddo che la comunità psicoanalitica riservò all’epoca al suo romanzo.

Una prima spiegazione dell’improprietà di quella descrizione potrebbe far riferimento al fatto che Svevo non ha affrontato un’analisi personalmente, avendone sentito parlare da persone a lui vicine ed essendosi limitato a leggere alcuni scritti teorici dello stesso Freud. Approfondendo la questione, ci si imbatte in ulteriori informazioni che approfondiscono le motivazioni del punto di vista dell’Autore, correlandolo con alcuni aspetti della sua vita privata.

La ricerca che ne è derivata mi ha permesso di scoprire inoltre che le letture più moderne dell’opera sveviana non solo ridimensionano le critiche dei primi analisti, ma addirittura tendono a ribaltare il punto di vista che ne è derivato sui rapporti tra Svevo e la psicoanalisi.

Ma ci arriveremo per gradi. Intanto cerchiamo di collocare meglio l’opera del triestino Ettore Schmitz, che si nascondeva sotto lo pseudonimo di Italo Svevo, nel panorama storico della letteratura italiana del Novecento.

Svevo ed Eugenio Montale

L’introduzione a “La coscienza di Zeno” dell’edizione Dall’Oglio è stata scritta da Eugenio Montale, anzi, a dire il vero, riporta per intero un intervento che il grande poeta, Nobel per la letteratura, pronunciò a Trieste in occasione della celebrazione ufficiale del centenario della nascita di Svevo, nel 1961.

Montale rivendica con orgoglio di aver portato per primo i lavori di Svevo alla ribalta del palcoscenico nazionale, pur riconoscendo che altri, prima di lui, ne avevano segnalato la grandezza nel ristretto ed esclusivo panorama culturale triestino. Ricordando anche con tenerezza il legame personale che lo aveva legato all’Autore, del quale aveva frequentato la casa e la famiglia, Montale rivela in questo scritto una competenza di critico letterario non meno geniale della sua forza poetica. Spaziando con sapienza dalla letteratura alla storia dell’arte, alla musica, dimostra, attraverso l’analisi puntuale della trilogia sveviana, la sua tesi di fondo:

“Io credo che solo il Verga, tra i nostri grandi, sia stato di questa natura, e fu per questo che, nel lontano 1925, osai scrivere, destando un putiferio ancora non del tutto spento, che Italo Svevo è stato il maggior romanziere che l’Italia abbia dato dal tempo di Verga fino ad oggi.”

E, secondo diversi autori1 , la grandezza e l’innovatività di Svevo, ormai universalmente riconosciute, soprattutto nella “Coscienza di Zeno”, avrebbero poco a che fare con la sua capacità di rendere adeguatamente il racconto di un percorso psicoanalitico, con l’inserimento di quelle che vengono definite “specificità analitiche mal digerite”, ma risiederebbe piuttosto nel procedere per libere associazioni, disintegrando la struttura narrativa del romanzo.

Tuttavia, l’affermazione di Montale, contenuta in questo breve scritto, che sembra essere più interessante è un’altra:

“…Un’opera d’arte, un’opera di poesia non modifica solo, in epoca successiva, l’ambiente culturale da cui è sorta, ma agisce anche retrospettivamente su tutte le opere d’arte che l’hanno preceduta. Materialmente ogni opera, finché non sia distrutta da qualche evento esterno, resta immobile, ed è quel che è. Ma aldilà della scorza esterna l’opera appare mutata dal confronto con altre opere successive. Mutando la natura del nostro rapporto, alterandosi le condizioni in cui avveniva il contatto con l’opera d’arte, noi riapriamo i vecchi libri, ascoltiamo le vecchie musiche, guardiamo i vecchi quadri e ci accorgiamo che essi non sono o non sembrano più gli stessi. Per noi sono mutati, hanno perduto il loro significato e ne hanno acquistato un altro. Talvolta (più spesso) la mutazione segna la scomparsa definitiva dell’opera dal nostro orizzonte vitale: l’opera retrocede a documento, entra negli archivi della cultura, dai quali – ma è un caso raro – una sopraggiunta modificazione del gusto potrà riscattarla. In altri casi l’opera pare ai nostri occhi ringiovanita, carica di un significato e di una potenzialità che solo una lunga incubazione nel tempo poteva portare alla luce. Ed è quel che è accaduto per i primi libri di Svevo.”2

Quindi Montale ci dice che un testo letterario non soltanto modifica la letteratura che lo segue, influenzando gli autori che avranno avuto occasione di leggerlo – questa è una cosa che ci si aspetta, perché è chiaro che quando un testo ha una sua forza intrinseca o introduce una novità non soltanto nello stile di scrittura ma proprio nell’impostazione della forma romanzo, tutti quelli che seguiranno non potranno fare a meno di tenerne conto – ma che può trasformare anche il passato, cioè modificare la nostra percezione dei testi che l’hanno preceduto, in funzione di quel testo che ne è venuto – probabilmente – come una conseguenza. Ma finché quel testo non compare, noi non possiamo sapere che ci sono stati dei prodromi, che ci sono state delle premesse e quindi i testi che avevamo letto in un certo modo, riletti come premesse di quello che li ha seguiti, cambiano anche la loro natura, cambiano anche la percezione che noi ne abbiamo. Ecco, quest’idea che una cosa, un evento, un gesto, un’opera possa modificare non soltanto il futuro ma anche il passato a me sembra molto psicoanalitica: la psicanalisi sostanzialmente fa questo, non limitandosi a indagare il passato, come molti ingenuamente credono, ma modificandone la percezione. Se è questa è l’essenza della cura psicanalitica, che modifica la percezione e l’influenza del passato sul presente, potrei affermare che anche Montale ha agito su di me “terapeuticamente”, perché questa premessa, retrospettivamente, mi ha aperto una prospettiva nuova, dandomi la possibilità di leggere Svevo in una chiave diversa.

Svevo ed Edoardo Weiss

Giorgio Voghera ne “Gli anni della psicoanalisi” scrive:

“Ma quella corrente che, nei primi anni dell’altro dopoguerra, è discesa da Vienna a conquistare l’Italia passando per Trieste – la psicanalisi, intendo dire – più che una corrente è stata un ciclone. Ragazzo, ho vissuto nell’occhio di quel ciclone in una relativa calma personale, ma tutti gli adulti che vivevano attorno a me: genitori, congiunti, amici, conoscenti, ne sono stati letteralmente travolti”.
(…) “Ma credo di non sbagliarmi se dico che assai più di quelli che ho accennato, un altro fattore ebbe a determinare l’estrema violenza del piccolo ciclone psicoanalitico triestino: la personalità di chi aveva ‘portato’ la psicoanalisi a Trieste, di Edoardo Weiss”.3

Edoardo Weiss è nato a Trieste nel 1889, terzo di nove figli, da un imprenditore boemo di origine ebraica, Ignazio, e da una triestina, sefardita, di nome Fortuna Iacchia. Come molti giovani della Trieste-bene Edoardo venne spedito a Vienna per gli studi universitari. Era già orientato verso la psichiatria e in quel momento Vienna era sede di una delle migliori facoltà di medicina del tempo. Weiss ebbe modo di frequentare clinici veramente illustri in ogni campo della medicina, ma fu colpito in modo particolare da Sigmund Freud, al quale decise di rivolgersi nonostante fosse stato messo al corrente dell’ostilità che l’ambiente accademico nutriva nei confronti della psicoanalisi. Nel 1908, a 19 anni, entrò per la prima volta nella sala d’aspetto di Berggasse 19, trovandosi insieme a un bambino di 5 anni accompagnato dal padre4. L’accoglienza di Freud fu molto amichevole e, avendo Edoardo dichiarato di voler intraprendere un percorso psicanalitico personale, Freud l’indirizzò ad uno dei suoi allievi prediletti, Paul Federn. Nel 1909, Edoardo cominciò l’analisi che durò circa un anno e mezzo. Il rapporto analitico si trasformò poi in una collaborazione professionale e in una solida amicizia, come avveniva spesso in quei tempi pionieristici, sfociata in un sodalizio scientifico che portò Weiss ad adottare e a sviluppare lo specifico orientamento di Federn nello studio della “Psicologia dell’Io”. Nel 1913, prima di rientrare a Trieste e prima di laurearsi, Weiss entrò a far parte della Società Psicoanalitica Viennese, cominciando così a partecipare alle famose “riunioni del mercoledì”. In quegli anni mosse anche “i suoi primi passi come terapeuta, prendendo in analisi un giovane che soffriva di nevrosi ossessiva”5 . Si sposò nel 1917 con una collega incontrata a Vienna e nel 1919 rientrò a Trieste, dove fu assunto nel locale ospedale psichiatrico, “frenocomio”, come si diceva allora, dove lavorò fino alla fine del 1928. Nel 1927 era stata introdotta dal regime “la norma dell’obbligatorietà per i dipendenti pubblici di iscriversi al partito nazionale fascista e di italianizzare, nel caso di triestini di etnie diverse, il loro cognome. Weiss si rifiutò di ottemperare a tali norme presentando le sue dimissioni dall’Ospedale, pur essendo stato proprio in quell’anno promosso come medico di sezione”6. Weiss tenne sempre rigidamente separati i suoi due mondi professionali: la psichiatria, che praticava in ospedale, e la psicoanalisi, che invece cercava di esercitare privatamente. Anche a Trieste l’ambiente accademico e quello ospedaliero non vedevano di buon occhio la psicoanalisi: quell’entusiasmo di cui parla Voghera, che è l’entusiasmo tipico dei neofiti – ben noto a chiunque si sia accostato a quel modo di interpretare la realtà – che caratterizzava l’ambiente che circondava Edoardo, era un entusiasmo tipico di un contesto sociale benestante, culturalmente evoluto, suggestionato da una visione del mondo affascinante e gravida di conseguenze letterarie, filosofiche, artistiche e antropologiche, ma che non corrispondeva affatto al giudizio che della psicoanalisi si dava in ambiente clinico né ad un reale successo della disciplina come metodo di cura. Weiss si lamenterà nel suo epistolario con Federn delle difficoltà incontrate nel tentativo di tener separata la clinica psicoanalitica dal pettegolezzo mondano, e dalla confusione di ruoli che lo circondava, tra amici che diventavano studiosi, studiosi che diventavano discepoli e discepoli che si proponevano come pazienti. La conseguenza era una grandissima difficoltà a mantenere il setting terapeutico lontano da interferenze di ogni genere, con i pazienti che parlavano pubblicamente del loro trattamento e gli amici che gli chiedevano in continuazione aiuto e attenzione sui loro problemi. Il tutto, prendendosi la libertà di non pagargli l’onorario, in nome dell’amicizia. Dopo dieci anni di quest’andazzo ce n’era abbastanza per andarsene da Trieste a cercare una dimensione professionale più tranquilla in un’altra città. Edoardo scelse Roma, dove si trasferì nel 1931 e dove divenne uno dei più importanti e più noti psicoanalisti italiani.

Tra relazioni a convegni, conferenze e pubblicazioni, Weiss assunse una posizione sempre più eminente nel panorama nazionale ma, quando nel 1931 pubblicò il suo manuale “Elementi di Psicoanalisi”7, supervisionato da Federn e con la prefazione dello stesso Freud, che lo definì suo “amico e discepolo”, fu investito ufficialmente del ruolo del più puntuale e competente divulgatore della psicoanalisi in Italia. Nel 1932 costituì la Società Psicoanalitica Italiana e fondò la Rivista Italiana di Psicoanalisi. Nel 1939, in seguito all’introduzione delle leggi razziali ad opera del fascismo, si trasferì negli Stati Uniti, dove lavorò fino alla sua scomparsa, nel 1970.

Negli anni del “ciclone psicoanalitico”, il luogo di ritrovo del “circolo vizioso” di intellettuali triestini era il Caffè Garibaldi8, dove quasi tutte le sere passavano Italo Svevo, Umberto Saba, Bobi Bazlen, il citato Guido Voghera, Vittorio Bolaffio, Giani Stuparich, Giorgio Fano, James Joyce. Tutti pendevano dalle labbra di Weiss che, sebbene non fosse un gran parlatore – anzi, parlava lentamente e con lunghe pause – aveva uno sguardo magnetico e penetrante, ma soprattutto aveva dalla sua parte la forza trascinante di una visione del mondo totalmente rivoluzionaria, che gettava una luce veramente nuova sull’uomo e sulle sue passioni. Da quel momento, nessuno di loro, pittore, poeta o scrittore che fosse, sarebbe potuto tornare a casa – e alla sua opera – come se nulla fosse successo.

Svevo ebbe quindi la fortuna di conoscere direttamente uno psicoanalista autentico, al di là delle mitizzazioni o delle rappresentazioni fantastiche della psicoanalisi che anche in quel periodo erano diffuse. C’erano infatti molti pseudodivulgatori del pensiero psicoanalitico, che in realtà non avevano né capito né digerito adeguatamente i lavori di Freud, letti frammentariamente e superficialmente. Svevo invece ebbe accesso diretto al pensiero freudiano attraverso una persona preparata e competente, che sicuramente gli seppe consigliare i testi giusti per avvicinarsi alla teoria e al quale era legato non solo da un rapporto di stima e di amicizia, ma anche da una “quasi parentela”. Infatti, il fratello minore di Edoardo, Ottocaro Weiss, aveva sposato la figlia di un fratello di Ettore, Ortensia Schmitz.

Ma, purtroppo, questo non era l’unico legame familiare esistente tra Weiss e Svevo, perché Weiss era stato compagno di scuola del cugino – nonché cognato – di Svevo, Bruno Veneziani, fratello di Livia, sua moglie. Ed è di Bruno Veneziani che a questo punto è necessario parlare.

Svevo e Bruno Veneziani

La famiglia Veneziani a Trieste aveva una posizione di grande prestigio e agiatezza poiché possedeva una importante fabbrica di vernici marine. In particolare, produceva la prima vernice sottomarina realmente antivegetativa, la vernice Moravia, della cui formula deteneva il segreto.

Nella seconda metà dell’Ottocento, Giuseppe Moravia per vivere produceva grasso per carri e non aveva mai sfruttato la formula di sua invenzione. Gli affari non andavano benissimo e i figli Olga e Guido andarono a cercar fortuna a Marsiglia. Qui Olga sposò Gioacchino Veneziani e, alla morte del padre, rientrò a Trieste con suo marito. Giuseppe aveva lasciato in eredità alla moglie Fanny la sua formula e lei, donna intraprendente, decise di sfruttare l’invenzione del marito, dando vita a una fabbrica di vernici ma, essendo ormai avanti negli anni, decise di affidarla a suo genero, Gioacchino. Così nacque la fabbrica Veneziani, che divenne ben presto leader nel suo settore: non solo la Marina austriaca, ma anche la Royal Navy scelse l’antivegetativa Veneziani per le proprie navi.

Giuseppe Moravia, il padre di Olga Veneziani, aveva una sorella, Allegra, che aveva sposato Francesco Schmitz. Allegra e Francesco ebbero otto figli, il quinto dei quali fu battezzato Aron Hector, nome che in seguito egli mutò in Ettore. Quindi Ettore Shmitz – Italo Svevo – e Olga Veneziani erano cugini di primo grado ed Ettore era cugino di secondo grado di Livia, che divenne sua moglie, delle sue due sorelle e dell’unico fratello maschio, Bruno, che ebbe un ruolo decisivo nei suoi rapporti con la psicoanalisi. Svevo, dopo aver lasciato il primo impiego in banca, trascorse lunghi anni nella filiale che la ditta Veneziani aveva aperto sull’isola di Murano e, successivamente, curò fin dal suo nascere la filiale che fu impiantata nel sobborgo londinese di Charlton. La sua attività di scrittore dovette sempre fare i conti con la necessità di lavorare nella ditta di famiglia per motivi economici.

Bruno Veneziani è stato definito la pecora nera della famiglia, non solo perché omosessuale e dedito all’assunzione di droghe di ogni tipo, ma soprattutto per la vita dissoluta e l’ostinata volontà di non mutare atteggiamento. Dotato di una vasta cultura, valente pianista, nonostante la famiglia fosse riuscita anche a farlo laureare in chimica, con l’idea di impiegarlo nella fabbrica, Bruno rimase sempre il cruccio principale della madre Olga, anche lei affetta da disturbi di tipo depressivo, che non si diede mai pace per la condotta del figlio prediletto. Nel 1911, con la mediazione di Edoardo Weiss, Olga riuscì a mandare Bruno in analisi da Freud in persona. Il tentativo di Freud fu un totale fallimento, tanto che dopo un paio di anni liquidò il suo paziente affermando: “Io posso guarire chi desidera la guarigione, non chi la rifiuta”. Qualche anno dopo, Olga si rivolse nuovamente a Weiss perché provasse a rimandare Bruno da Freud. In quella occasione Weiss ritenne opportuno sondare l’opinione di Freud rispetto a questa eventualità e Freud fu definitivamente durissimo nella valutazione del suo ex paziente:

“Dal momento che mi chiede un parere spassionato, non vorrei nasconderLe il mio pensiero al riguardo. Credo che egli non rappresenti un caso favorevole, soprattutto per la libera analisi. Due sono le cose che gli mancano: la prima, quel certo conflitto di sofferenza fra il suo Io e le sue pulsioni istintuali, perché in effetti è molto soddisfatto di sé; la seconda, quel tanto di normalità dell’Io che gli consente di collaborare con l’analista. Egli invece tenderà sempre ad ingannarlo, a fingere per levarselo di torno. Entrambi questi difetti convergono in uno solo e cioè nello sviluppo di un Io estremamente narcisistico refrattario ad ogni influenza, che sfortunatamente può far leva su tutti i suoi talenti e le sue doti personali. Penso quindi che al momento attuale un trattamento da parte mia o di altri non possa giovare. In tutto ciò non considero minimamente il fatto che sia omosessuale: potrebbe continuare ad esserlo e, tuttavia, condurre vita ordinata e ragionevole”.

Dopo questa risposta categorica, Freud comunque consigliò il ricovero in una clinica facendo il nome del sanatorio di Baden Baden diretto allora dal dottor Groddeck.

Freud conclude la sua lettera mostrando la sua profonda antipatia nei confronti di questo paziente. Scrive, infatti: “Nella peggiore delle ipotesi gente come il dottor A. (questo è il nome che era stato scelto per riservatezza) la si spedisce con un po’ di denaro oltreoceano, per esempio in Sudamerica, lasciando che lì cerchi e trovi il proprio destino”.

Weiss, che non abbandonò mai l’amico Bruno – che, come detto, era stato suo compagno di scuola – l’aveva già inviato dopo il primo fallimento dell’analisi con Freud a Victor Tausk. Seguendo il consiglio di Freud, lo inviò da Groddeck, ma non andò bene nemmeno con lui. Allora lo mandò da Abraham e, alla fine, nel sanatorio di Biswanger. Nel 1929, Weiss tentò di farlo disintossicare ricoverandolo all’Ospedale psichiatrico di Trieste, compilandone personalmente la cartella clinica.

I rapporti tra Weiss e Veneziani proseguirono anche negli anni ’30, quando entrambi si trasferirono a Roma. Weiss, pur consapevole della gravità del suo amico, gli aveva sempre riconosciuto alcune doti ed era sempre stato disposto ad aiutarlo. Il loro rapporto si interruppe sul finire degli anni ’30, quando lo psicoanalista triestino si trasferì negli Stati Uniti.

Bruno non si imbarcò mai per il Sudamerica né per qualche altro paese del mondo, ma rimase a Roma e, quando Weiss partì, si rivolse ad un altro psicanalista, uno junghiano, Ernst Bernhard. Ma anche in quest’ultima occasione la cura non ebbe esito favorevole. Dall’epistolario tra Weiss e Bernhard9 conosciamo l’epilogo della vita di Bruno Veneziani, che morì nel 1952, come dice Bernhard, “dopo un lungo periodo di sofferenze, per uno scompenso cardiocircolatorio dovuto al persistente abuso di droghe e alla vita estrema e disordinata che aveva sempre condotto”.

In realtà sulla fine di Veneziani abbiamo anche un’altra versione dei fatti – in un certo senso, un “lieto fine”- raccontata dal nipote Fulvio Anzellotti: “La sua guarigione arrivò per Bruno sotto le sembianze di un bel marinaio conosciuto a Roma che vivrà con lui fino alla morte, avvenuta nel 1952.”10

Il rifiuto della psicanalisi da parte di Veneziani ma anche quello di Veneziani da parte di Freud segnò profondamente la percezione che Svevo ebbe della psicanalisi.

Il giudizio di Freud su Bruno Veneziani dispiacque molto alla famiglia, anche se la stessa non ne venne a conoscenza completamente e, per quanto i suoceri avessero cercato di far trapelare il meno possibile sui motivi del fallimento della cura, è certo che anche Svevo ne fu impressionato, tanto da influenzare il suo giudizio sulla psicoanalisi stessa.

Svevo e la psicoanalisi

Scrive Svevo in “Soggiorno londinese”:

“Ma quale scrittore potrebbe rinunciare di pensare almeno la psicanalisi? Io la conobbi nel 1910. Un mio amico nevrotico corse a Vienna per intraprenderla. L’avviso dato a me fu l’unico buon effetto della sua cura. Si fece psicanalizzare per due anni e ritornò dalla cura addirittura distrutto: abulico come prima ma con la sua abulia aggravata dalla convinzione che egli, essendo fatto così, non potesse agire altrimenti. È lui che mi diede la convinzione che fosse pericoloso di spiegare ad un uomo com’era fatto ed ogni volta che lo vedo lo amo per l’antica amicizia ma anche per la nuova gratitudine”11 .

E, sempre a proposito di Bruno Veneziani, in una lettera a Valerio Jahier del 10 dicembre 1927 c’è un’interessante precisazione riguardo al fondatore della psicoanalisi:

Grande uomo quel nostro Freud, ma più per i romanzieri che per gli ammalati.”

In un’altra lettera del 27 dicembre, Svevo cerca di attenuare i toni per non condizionare troppo Jahier, che si era sottoposto ad una terapia analitica, ma in sostanza ribadisce la sua opinione:

“Certo ch’io non posso mentire e debbo confermarle che in un caso trattato dal Freud in persona non si ebbe alcun risultato. Per esattezza debbo aggiungere che il Freud stesso, dopo anni di cure implicanti gravi spese, congedò il paziente dichiarandolo inguaribile. Anzi io ammiro il Freud, ma quel verdetto dopo tanta vita perduta mi lasciò un’impressione disgustosa.”

Sempre in “Soggiorno londinese”, Svevo approfondisce così ulteriormente la questione:

“Lessi qualche cosa del Freud con fatica e piena antipatia. Non lo si crederebbe ma io amo dagli altri scrittori una lingua pura ed uno stile chiaro e ornato. Secondo me il Freud, meno nelle sue celebri prelezioni che conobbi appena nel ’16, è un po’ esitante, contorto, preciso con fatica. Però ne ripresi sempre a tratti la lettura continuamente sospesa per vera antipatia. Bisogna anche ricordare che vivevo in Austria, la sede del Freud. Le cure del Freud si moltiplicavano e alcune con risultati meravigliosi. (…) Come cura a me non importava: io ero sano o almeno amavo tanto la mia malattia (se c’è) da preservarla con intero spirito di autodifesa. Anzi la mia antipatia per lo stile del Freud fu interpretata dal freudiano cui mi confidai come un colpo di denti dato dall’animale primitivo che c’è anche in me per proteggere la propria malattia. Ma la psicanalisi non mi abbandonò più”.

E altrove:

“La psicanalisi. Non temete che io ve ne parli troppo. Ve ne dico solo per avvertirvi che io con la psicanalisi non c’entro e ve ne darò la prova. Ora si dice che Senilità e La coscienza di Zeno le abbia scritte sotto la sua influenza. Per Senilità mi è facile di rispondere. Io pubblicai Senilità nel 1898 e allora Freud non esisteva, o in quanto esisteva si chiamava Charchot. In quanto alla Coscienza, io per lungo tempo credetti di doverla al Freud ma pare mi sia ingannato. Adagio: vi sono due o tre idee nel romanzo che sono addirittura prese di peso dal Freud. L’uomo che per non assistere al funerale di colui che diceva suo amico e ch’era in realtà suo nemico si sbaglia il funerale è freudiana con un coraggio di cui mi vanto. L’altro che sogna di avvenimenti lontani e nel sogno li altera come avrebbe voluto fossero stati è freudiano in modo come saprebbe fare chiunque conosca il Freud. È proprio un paragrafo di cui non mi vanterei se non vi fosse dentro un’altra ideuccia di cui mi compiaccio”.

“Tuttavia io credetti per qualche tempo di aver fatto opera di psicanalista. Ora debbo dire che quando pubblicai il mio libro da cui – come tutti coloro che pubblicano – m’ero atteso il successo, mi trovai circondato da un silenzio sepolcrale. Oggi parlandone so ridere e avrei saputo riderne anche allora se fossi stato più giovine. Invece ne soffersi tanto che creai l’assioma: la letteratura non fa per i vecchi. Un uomo pratico di insuccessi come sono io non sapeva sopportare questo perché gli insidiava l’appetito e il sonno. In quei giorni capita da me l’unico medico psicanalista di Trieste e mio ottimo amico, il dottor Weiss, e, inquieto, guardandomi negli occhi, domanda se il medico psicanalista di Trieste di cui mi ero burlato nel mio romanzo fosse lui. Risultò subito che non poteva essere lui perché durante la guerra egli la psicoanalisi a Trieste non l’aveva praticata. Rasserenato, accettò il mio libro con tanto di dedica, promise di studiarlo e di farne una relazione in una rivista psicanalitica di Vienna. Per qualche giorno mangiai e dormii meglio. Ero vicino al successo perché la mia opera sarebbe stata discussa in una rivista mondiale. Invece quando lo rividi, il dottor Weiss mi disse che non poteva parlare del mio libro perché con la psicanalisi non aveva nulla a vedere. In allora mi dolse perché sarebbe stato un bel successo se il Freud mi avesse telegrafato: “Grazie di aver introdotto nell’estetica italiana la psicanalisi”. Ora non mi duole più. Noi romanzieri amiamo baloccarci con le grandi filosofie e non siamo certo atti a chiarirle: le falsifichiamo ma le umanizziamo”.

La vicenda di Bruno Veneziani, dunque, ha rappresentato, per molti commentatori, una delle spiegazioni di quello che è stato definito “l’atteggiamento ambivalente” di Svevo nei confronti della psicoanalisi. A me, più che ambivalente sembra decisamente critico e decisamente prevenuto nei confronti della psicoanalisi come metodo di cura. È vero che Svevo riconosce alla psicoanalisi un’importanza come “filosofia”, cioè come visione del mondo che ha rivoluzionato l’arte, la letteratura, il teatro, l’antropologia, il mondo culturale in generale, però, alla luce di quanto confessa egli stesso, ha subito anche personalmente una frustrazione quando gli è stato fatto capire che gli erano rimaste oscure troppe cose. Nei confronti della figura dello psicoanalista del romanzo, Svevo/Zeno non si può certo definire ambivalente, tanto spietata è la sua critica, tanto netta è la sua volontà di metterlo in ridicolo e di ingannarlo.

Scrive Giovanni Albertocchi:

“Di fronte al Dottor S., Zeno rappresenterebbe quindi un copione scritto a quattro mani da Italo Svevo e da Bruno Veneziani, per vendicarsi di tutto il tempo perso da quest’ultimo andando su e giù fra Trieste, Vienna e Baden-Baden e soprattutto di quella lunga lotta sostenuta contro di lui dai migliori specialisti europei, Freud in testa, per guarirlo da una ‘malattia’ a giudizio di Svevo inesistente. Ecco quindi dove conduce la perversa strategia di Zeno: a smontare la credibilità della psicoanalisi visto che poggia su un sistema di lacune intenzionali e di bugie. Dietro il Dottor S. che riceve in pieno viso, come i personaggi del cinema muto, la torta-sberleffo del suo paziente, possiamo quindi immaginare la presenza di un’intera dinastia di psicoanalisti, a cominciare dal capostipite, Sigmund Freud, ed includendovi pure Edoardo Weiss che, pur senza volerlo, viveva, come si è visto, con i suoi pazienti una sorta di frenetica promiscuità in cui poteva maturare un gesto cosi poco deontologico come quello compiuto dall’analista di Zeno di rivelare i segreti del suo paziente”.12

Dunque, a motivare Svevo nella sua opposizione alla psicoanalisi come cura troviamo il risentimento per il fallimento dei tentativi di cura di Bruno, la delusione per essere stato accusato di non aver capito gran che di quella tecnica, la sua posizione nei confronti del concetto di “malattia” utilizzato per definire il comportamento di Bruno. Del resto anche Zeno si ribella a questa impostazione. Ci ricordiamo le sue parole alla fine del romanzo:

“Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella mia vita stessa una manifestazione di malattia. La vita assomiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi e dai giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. (…) Qualunque sforzo di darci la salute è vano. (…) Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. (…) Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”13

In questo capitolo Svevo/Zeno difende dunque la sua malattia, come la particolarità dell’uomo che lo rende unico e irripetibile – e quindi gli fornisce dignità – ed esprime l’intenzione di non lasciarsi costringere all’interno della cura psicanalitica, che considera una modificazione della propria natura. Molti commentatori hanno perciò rilevato come questa sia una critica che anticipa ciò che sarebbe successo molti anni dopo, quando nel mondo psichiatrico si fecero strada le teorie che accusavano la psicoanalisi – e le altre forme di terapia psicologica o farmacologica – di essere strumenti di normalizzazione, di consenso, di integrazione sociale forzata, di adeguamento ad una visione riduttiva, limitata e immutabile degli esseri umani. In questa prospettiva Svevo acquisisce una nuova, ulteriore, identità: è un ribelle, è il paladino degli oppressi, è colui che ridà dignità a tutti gli esclusi e i devianti rigettati dall’ordine sociale costituito. Non c’è dubbio che Bruno sia stato sempre simpatico a Svevo, che lo abbia sempre difeso e che gli abbia sempre voluto bene.

In un articolo del 1974, Cesare Musatti ha interpretato questa ambivalenza di Svevo/Zeno nei confronti dello psicoanalista come una classica manifestazione del transfert in psicoanalisi:

“In Svevo il transfert e l’ambivalenza sono evidenti. Ne è oggetto lo stesso Freud in persona, amato ed avversato insieme; ma anche ogni altro analista che con Freud venga ad identificarsi. Pure nella Coscienza Zeno si lamenta e si ribella perché il dottor S. vuole imporgli “le proprie dottrine”: che naturalmente sono soltanto le teorie di Freud.”14

“(…) Nessun analista, per quanto impreparato e maldestro, si comporterebbe alla maniera del dottor S.; il quale è invece descritto così come potrebbe recepire il proprio analista qualsiasi paziente (e dunque lo stesso Zeno): minaccioso, crudele, che tratta l’analisi come una propria faccenda personale e il paziente come roba sua, da cui trarre denaro, prestigio e potenza. Gli analisti si sentono assai spesso considerati proprio così dai pazienti e una parte dell’analisi del transfert consiste appunto nell’individuazione delle motivazioni inconsce di questa situazione; (…) in definitiva quella stessa personalità si ritrova in ogni figura autoritaria della vita di lui, cioè in tutta la serie dei padri: il padre vero, il suocero, il vecchio Olivi e tutti i medici che entrano nel romanzo i quali sono, compreso il dottor S., ben sette. Sotto la loro tutela e dominio, egli, incapace e sprovveduto, è sempre stato costretto senza alcuna possibilità o speranza neanche in seguito alla scomparsa fisica del protettore-persecutore.
Così come accade per il padre vero, nella stupenda scena della morte, dove l’umorismo si eleva a tragedia quando il braccio alzato come per un solenne atto di congedo si abbatte sul volto di Zeno in una sdegnata condanna per l’eternità.”15

Svevo e l’umorismo

Ma, forse, nel breve saggio citato, il discorso più interessante introdotto da Musatti non è quello relativo al transfert di Svevo/Zeno nei confronti dell’analista ma proprio quello relativo all’uso dell’umorismo in tutto il romanzo. Come vedremo, la sua tesi è che Svevo lo utilizza per portare i lettori dalla parte di Zeno:

“(…) Svevo riesce a suscitare per Zeno in noi – che nella figura del protagonista sospettiamo l’autore – simpatia e solidarietà. I procedimenti mediante i quali uno scrittore può attrarre sopra un proprio personaggio dalle caratteristiche negative la simpatia del lettore sono indubbiamente molteplici. Ma uno ve n’è più di ogni altro efficace. Ed è l’impostazione umoristica. Il processo umoristico, come anche Freud ha lucidamente descritto, è quello per cui un personaggio (che è sempre lo stesso autore), mentre si scopre e denuda per tutti gli aspetti deteriori della sua umanità, sui quali il pubblico è pronto a convergere la propria aggressività critica, rende improvvisamente superflua questa aggressività e si riscatta: in quanto si dimostra egli stesso del tutto consapevole della propria miseria, e in quanto attraverso questa coscienza di sé si eleva al di sopra delle proprie magagne. Con questo mezzo il personaggio umoristico si conquista l’affettuosa comprensione del lettore che con lui solidarizza e si identifica perché le debolezze di lui si rivelano debolezze di tutti (…) A me sembra chiaro che la coscienza di Zeno, la coscienza che Zeno ha delle proprie deficienze e miserie, null’altro sia che l’umorismo di Svevo. Questo è il vero carattere del romanzo: umorismo nel senso più completo e profondo. Che ciò abbia un certo modo a che fare con la psicanalisi è pur vero non perché la psicoanalisi consista nel fare dell’umorismo, ma perché l’umorista ha un atteggiamento autocritico e, nel significato limitativo già espresso, autoanalitico.”16

Quindi, secondo Musatti, questo umorismo di cui è permeato tutto il romanzo è la più importante chiave di lettura dello stesso, perché non solo ci spiega come questo personaggio così nevrotico, così inetto, così incapace riesca in qualche modo a farsi voler bene, ma soprattutto perché ci rivela che attraverso l’autoironia ci si avvicina alla coscienza di sé e, di conseguenza, alla psicoanalisi; anche se poi Musatti – quasi spaventato dalla sua stessa affermazione – ci tiene a sottolineare che la psicoanalisi non è soltanto ironia. E qui finisce Musatti, ma non finisce la riflessione su questo discorso.

Emma Bond, una ricercatrice della John Hopkins University, che già nel 2013 si era occupata di Svevo, nel 2016 ha pubblicato un illuminante sgaggio che valorizza l’ironia sveviana, mettendola in stretta relazione con lo “stile di vita” di cui parla Kierkegaard.

Attraverso un lavoro di ricerca, sostenuto da istituzioni e archivi storici, la Bond ha scoperto che non tutta la biblioteca di Villa Veneziani era andata perduta in un incendio, come si riteneva, ma che diversi libri erano sopravissuti. Tra questi, alcuni dei libri appartenuti ad Ettore, sui quali lo scrittore aveva certamente studiato. La scoperta più rilevante, secondo la Bond, è la presenza tra questi dei testi di Kierkegaard, che si suppone siano stati letti successivamente a quelli di Shopenhauer. Così la Bond ha individuato l’influenza di Schopenhauer in Una vita e quella di Freud, ma contemporaneamente a quella di Kierkegaard, nella Coscienza di Zeno.

Dice la Bond:

“La lettura, recentemente scoperta, di Svevo dell’ironia esistenziale di Kierkegaard mette in luce la sua concezione del potere sia della narrazione sia del processo analitico stesso”.17

Se la lettura di Freud ha dato origine all’illusione di poter ricondurre la malattia allo stato di salute, inteso come una forma di “normalizzazione”, quella di Kierkgaard ha spostato l’accento sull’ironia come “way of life” – stile di vita – considerandola come una delle possibili modalità di soluzione della contraddizione ineludibile tra il desiderio e la sua frustrazione.

Nell’atteggiamento ironico la parola non è più l’univoca manifestazione del pensiero, perché contiene un’intrinseca menzogna: il fenomeno non è più direttamente connesso alla sostanza che attraverso di esso dovrebbe rendersi visibile, ma ci collega ad un pensiero spiazzante che appare privo di verità. Colui che, sorridendo ironicamente, appare dissentire da ciò che ha appena detto, non sta negando sé stesso, ma la sua adesione a una realtà che viene smitizzata e svalutata. Attraverso l’ironia, il soggetto prende le distanze da ciò che ha detto, liberandosene e svincolandosi da quella realtà che ha percepito insignificante.

Dice ancora la Bond:

Per Svevo, ironia, malattia e risate sono quindi allineate dalla prassi dell’analisi, che rivela le ambiguità interne e le contraddizioni sia della parola sia dell’individualità. In questo allineamento, esse si fondono per comprendere la posizione di distacco che caratterizza lo stile di vita dell’ironico. Qui la ricezione da parte di Svevo dell’ironia kierkegaardiana lo porta oltre Freud e verso l’anticipo degli scritti successivi di Jacques Lacan, che collocano gli strumenti della retorica in rapporto al funzionamento dell’inconscio stesso e quindi affrontano in modo più approfondito l’ironia, anche in una prospettiva di autoconsapevolezza.”18

Per Jacques Lacan tutto il pensiero è “pensare altro’”: non c’è stabilità, nessun punto di arresto, nessun sistema supremo. L’inconscio parlante è un modello per la vita intellettuale. All’interno di questo sistema di spostamento dialettico privilegiato da Lacan, il significato dell’ironia va oltre il suo status come atto linguistico e comincia a fornire informazioni sulla costruzione e decostruzione dell’identità soggettiva stessa. Questo perché il soggetto è portato all’essere attraverso l’incontro linguistico con l’Altro.

Conclude la Bond:

“Sia il lavoro di Svevo che quello di Kierkegaard indicano un senso di orgoglio per il raffinato rifiuto dell’assoluto, l’esistenza di una verità stabile che privilegia la malattia come una posizione dinamica e intenzionale. Svevo stesso scrisse del suo desiderio di mantenere il divario tra ignoranza e conoscenza (o meglio, pensiero conscio e inconscio) decisamente aperto, e resistere all’impulso di decodifica dell’analisi. Ma se le implicazioni di questa presa di posizione ironica sono impegnative per una lettura de La coscienza di Zeno, allora le conseguenze per la psicoanalisi stessa sono ugualmente di vasta portata, come sicuramente ha capito lo stesso Svevo. Se accettiamo la mancanza di una verità assoluta, o di una conoscenza totale di sé, allora cosa ‘isola l’analista o la stessa psicoanalisi dalle drammatiche ironie dell’inconscio’? (…) Come ha detto Jacques-Alain Miller, «Secondo Lacan, la psicoanalisi, seguendo la via prescritta da Freud, ripristina l’ironia nella nevrosi. Sarebbe meraviglioso, infatti, curare nevrosi per ironia. Se riuscissimo a curare la nevrosi con l’ironia, lo faremmo senza il bisogno di sostenerla con la psicoanalisi. Ma non siamo ancora guariti dalla psicoanalisi, nonostante l’ironia di Lacan» Credo che questo uso dell’ironia sia il punto in cui Svevo è notevolmente avanti nella sua comprensione della psicoanalisi, quando la interpreta come strumento – o matrice – narrativo potenzialmente elettrizzante, e anche quando la sua lettura di Kierkegaard lo aiuta a elaborare un efficace rifiuto della psicoanalisi come cura. (…) In effetti, questa proposta, che lega Kierkegaard a Svevo, è forse il primo testo documentato che spiega come la psicoanalisi, nelle parole di Adam Phillips, “diventa una critica ironica… un preludio dell’ignoranza necessaria, un richiamo alle ironie della conoscenza”.19

Una bella storia

Al termine di questa lunga indagine sui rapporti tra Svevo e la Psicoanalisi, dobbiamo riconoscere che Svevo e Zeno sono molto più interessanti di come li avessimo percepiti ad una prima impressione. Abbiamo detto che l’ipotesi più ingenua era che la mancanza di un’esperienza diretta avesse impedito a Svevo di penetrare nella realtà quotidiana dell’analisi. Poi abbiamo scoperto che sentimenti inevitabilmente critici legati ad esperienze familiari potrebbero aver determinato quello che è stato chiamato atteggiamento ambivalente – ma sostanzialmente aggressivo. Poi abbiamo riferito che qualcuno ha pensato che questo potesse avere anche un legame con le resistenze dell’Autore nei confronti della presa di coscienza, come succede a tutti quelli che si avvicinano all’analisi; in particolare, con l’ambivalenza provata nei confronti della figura paterna, tanto da costruire una figura di psicoanalista che è stata definita “inutile” o “inesistente” dal mondo della psicoanalisi (con un certo risentimento, in verità). Andando ancora oltre, abbiamo scoperto che il rifiuto della cura come normalizzazione e la difesa al diritto ad essere “malati” hanno fatto di Svevo un antesignano di riflessioni e prese di posizione espresse dalla filosofia e dall’antropologia molti anni più tardi. In conclusione, abbiamo scoperto che gli studi più recenti sostengono che Svevo ha capito profondamente, e più di tanti altri, quale sia l’essenza più profonda non solo della natura umana, ma della stessa psicoanalisi: illusione di verità, luogo privilegiato di menzogne inevitabili, illuminata di nuova luce dall’esperienza dell’ironia.

Forse Svevo ha compreso prima di altri il vero dramma della psicoanalisi: portare alla consapevolezza che il desiderio non è mai completamente realizzabile. Un elemento ineludibile del percorso psicanalitico è che ha a che fare con il cosiddetto “disagio della civiltà”: la civilizzazione rende inevitabile l’accettazione della frustrazione del desiderio. Ma come si fa a rendere tollerabile questa frustrazione inevitabile? Secondo la Bond, che fa riferimento ad una lettura di stampo lacaniano, (e Svevo diventa un profeta di questa lettura) tutto questo si può realizzare solo attraverso l’ironia. Saper ridere di noi stessi, saper ridere delle nostre nevrosi, saper ridere delle nostre menzogne, saper ridere della nostra illusione di verità è l’unico modo che renda tollerabile un’esistenza dominata dalla frustrazione. La ricezione da parte di Svevo dell’ironia kierkegaardiana lo ha portato quindi oltre Freud, al di là del suo tempo e delle idee che lo hanno dominato.

È chiaro che questa psicanalisi che ricostruisce il passato senza avere più l’illusione della rievocazione della verità, che si accontenta del verosimile, che affronta tutto ciò con il coraggio di ironizzare sulla consapevolezza dell’ineluttabilità della menzogna è una psicoanalisi molto più moderna di quella, figlia del positivismo, che aspirava a guarire dalla malattia grazie alla ricostruzione storica e all’attualizzazione del passato. Proprio questa peculiarità differenzia l’atteggiamento dello psicanalista da quello dell’investigatore, perché l’investigatore la verità la deve cercare per forza non potendosi accontentare della verosimiglianza, o di una bella ipotesi: la deve sottoporre alla prova dei fatti.

Lo psicoanalista, in fondo, se ha raccontato al suo paziente una bella storia, se insieme ci credono, possono ironizzarci sopra e ci si ritrovano entrambi, si possono accontentare di quello che hanno scoperto, anche se non è provato che sia la verità.

Note

[1] E. Roditi:  Il romanziere comincia dove Freud finisce. Fascino del qui pro quo – La fiera letteraria, 11 ottobre 1953; G. Cattaneo: Svevo e la psicoanalisi Belfagor, 1959; A. Bouissy, Les fondéments idéologiques de l’oeuvre d’Italo Svevo, in: “Revue des Études Italiennes”, XII-XIII, 3-4-5, 1966-67

[2] Montale, E.: Italo Svevo – Introduzione a “La coscienza di Zeno” – Dall’Oglio ed., Milano, 1978

[3] Voghera, G.: Gli anni della psicoanalisi, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1980.

[4] Avrebbe saputo in seguito che si trattava del “piccolo Hans”. Cfr. Corsa, R.: Edoardo Weiss a Trieste con Freud – Alpes Italia Ed. – Roma 2018.

[5] Accerboni A.M., Trieste nella psicoanalisi, Lint, Trieste, 2002.

[6] Accerboni A.M., Op. cit.

[7] Weiss, E.: Elementi di Psicoanalisi – Ed. Studio Tesi, Pordenone, 1995.

[8] Allora detto “Caffè Municipio” perché si trovava sotto il Municipio cittadino, in Piazza Grande, oggi Piazza Unità d’Italia.

[9] Carteggio tra Ernst Bernhard ed Edoardo Weiss, dal sito online ASPI (Archivio Storico della Psicologia Italiana) Corrispondenze generali LI A-D

[10] Anzellotti, F.: La villa di Zeno – Ed. Studio Tesi, Pordenone, 1991

[11] Svevo, I.: Soggiorno Londinese, in Saggi e pagine sparse – Mondadori, Milano, 1954

[12] Albertocchi, G.: Lingua e dialetto nella coscienza di Zeno ESTUDI GENERAL 21 Revista de la Facultat de Lletres de la Universitat de Girona, 2001

[13] Svevo, I.: La coscienza di Zeno – Ed. Dall’Oglio, Milano, 1938.

[14] Musatti, C.: Svevo e la psicoanalisiBelfagor vol. 29, n. 2, marzo 1974. Articolo pubblicato in occasione dell’uscita del saggio di Saccone, E.: Svevo, Zeno e la Psicanalisi. MLN, 85(1), (1970). Successivamente, lo stesso Saccone ha risposto a Musatti con un altro alrticolo, Ancora su Svevo e la Psicanalisi. MLN, vol. 90, no. 1, 1975.

[15] Musatti, C., cit.

[16] Musatti, C., cit.

[17] Bond, E.: Irony as a Way of Life: Svevo, Kierkegaard, and Psychoanalysis, in Philosophy and Literature, John Hopkins University Press. Vol. 40, n. 2, Oct. 2016. (Trad. mia).

[18] Bond, E., cit.

[19] Bond. E., cit.

Bibliografia

Accerboni A.M.:, Trieste nella psicoanalisi, Lint, Trieste, 2002.
Albertocchi, G.: Lingua e dialetto nella coscienza di Zeno ESTUDI GENERAL 21 Revista de la Facultat de Lletres de la Universitat de Girona, 2001
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Bond, E.: Irony as a Way of Life: Svevo, Kierkegaard, and Psychoanalysis, in Philosophy and Literature, John Hopkins University Press. Vol. 40, n. 2, Oct. 2016.
Bouissy, A.: Les fondéments idéologiques de l’oeuvre d’Italo Svevo, in: “Revue des Études Italiennes”, XII-XIII, 3-4-5, 1966-67.
Cattaneo, G.: Svevo e la psicoanalisi Belfagor, 1959.
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Svevo, I.: La coscienza di Zeno – Ed. Dall’Oglio, Milano, 1938.
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