SAREMO L’INFERNO CHE CI STATE LASCIANDO
Prima parte

INTRODUZIONE

IIl crollo dell’ordine internazionale, la vastità delle catastrofi in corso, l’insoddisfazione generale in merito all’offerta politica stanno mettendo a dura prova il vecchio assetto mondiale. Sembrava che si potesse dare un unico senso alla storia, che si potesse controllarlo, orientarlo.

Invece tutto si muove, tutto muta, evolve, come se il mondo non avesse più una consistenza. Come se non avessimo più familiarità con la totalità di significati con cui quotidianamente ci orientiamo, con ciò che Heidegger chiamava “mondità” del mondo, fatta di idee, pregiudizi, aspettative. Il corso degli eventi è visibilmente cambiato rispetto a quello che ci si aspettava e i problemi che sorgono immediatamente sembrano travolgerci. È come se masse di persone in tutto il mondo avessero smesso di credere nel senso comune dominante e cercassero disperatamente di ritrovare un senso di normalità. Da qui il disorientamento, o addirittura il sentirci stranieri nella nostra stessa terra, proprio nel momento in cui più pronta dovrebbe essere la reazione. Dopo aver navigato spinti da un’unica corrente al largo nell’oceano della globalizzazione, tutti presi dal mito dell’espansione infinita che dispensava dalla responsabilità di pensare, è come se le società e gli individui si ritrovassero in mare aperto, con le correnti che sono diventate improvvisamente minacciose.

Siamo tutti situati in un mondo colpito da eventi imprevedibili che perturbano l’ordine del mondo, la sua organizzazione logica, il trascendentale di quel mondo. Ma questo non dice tutto. Altrettanto importante è come ci si dispone nei confronti di questa perdita di orientamento. Il disorientamento non vale per tutti, almeno non allo stesso modo. Molti continuano a vivere come se niente fosse cambiato (colpisce con quanta velocità ci si è buttati dietro le spalle l’esperienza della pandemia senza metabolizzarne davvero la lezione).

Ma i problemi sono lì e si ripetono come se seguissero lo stesso copione. E così, ogni volta, ci si lascia sorprendere da ciò che si riteneva impossibile. In generale gli eventi catastrofici suscitano due tipi di reazione: da una parte, continuare a vivere come se niente fosse successo. In fondo con qualche piccolo aggiustamento si può sempre pensare che le cose possano tornare come prima. Noi moderni siamo bravi ad ottenere un certo grado di sospensione volontaria della cruda realtà, soprattutto da quando, con l’Illuminismo, abbiamo trasferito dall’etica all’estetica l’esperienza del grandioso (“sublime”), in questo caso del catastrofico. E così il terrore, da evento reale è diventato immaginario. Ai nostri occhi di occidentali, le catastrofi avvengono per degli spettatori (quali siamo), entro una cornice quasi di intrattenimento, quando non di pura emergenza. Se ogni precomprensione del mondo è già sempre accordata ad una tonalità emotiva, in questo caso si mantiene una distanza tra sé e il nuovo presente storico. Si potrà anche concedere qualcosa al cambiamento, ma solo allo scopo che tutto resti nel quadro dell’ordine precedente.

Esiste anche una diversa modalità di reagire, in cui si dimostra una maggior capacità di accogliere i segnali che indicano un cambio di paradigma. L’ansia, la paura dell’imprevisto o il senso di impotenza avvertite all’inizio non susciteranno più una reazione di negazione del problema o l’indifferenza, ma si trasformeranno in rabbia, e se questa riesce a organizzarsi e diventare una forza attiva, ci sarà spazio per il coraggio e l’entusiasmo. Ci saranno energie da liberare e da attivare per modificare l’ordine del mondo, incapace di soddisfare il bisogno diffuso di maggior legame sociale. Per questo è importante che si apra una faglia tra etica e mondo, altrimenti si rimane nell’indifferenza, nella rassegnazione, nel cinismo e nella semplice conservazione dell’esistente.

Certo è che il bagaglio mentale, morale, organizzativo, amministrativo e giuridico associato alla vecchia economia della produzione gira a vuoto e il nuovo bagaglio non è stato ancora elaborato. E così rischiamo di affondare nell’impotenza, nell’indifferenza, nel cinismo, nell’ansia, nel senso di colpa, nell’angoscia. Questo ribaltamento rappresenta forse l’origine principale dell’”epoca delle passioni tristi”, da diagnosticare e di cui prendersi cura, innanzitutto con un allineamento tra ansie, egoismi da superare, energie da sprigionare, azioni collettive, valori da difendere e un nuovo senso della storia. In altri termini, dobbiamo cambiare la nostra cosmologia.

Anche dall’ambito delle professioni di cura arriva l’allarme di un vuoto di legami di provenienza e di orizzonti di aspettativa; come quando ci si trova a dover navigare in mare aperto e si percepisce un forte “senso dell’errare”. Tenere il mare vuol dire darsi una direzione e riconoscere il fatto che non ci si salva da soli. Questa esigenza è raccolta dalla rivista Dromo on line, che mira ad offrire nuove chiavi di lettura per il presente, punti di riferimento per “far riconoscere la costa ai naviganti, qualcosa che aiuti a non perdersi o meglio a non sentirsi perduti e disorientati”. Se il termine “dromo” indica un punto di riferimento utile nella navigazione è perché, fuor di metafora, il mondo è cresciuto velocemente e si sono prodotti squilibri tali da esporlo con maggior frequenza al rischio di catastrofi.

Del resto chi è impegnato nelle professioni di cura sa che ci sono mestieri (educare, governare, psicoanalizzare) che hanno freudianamente dell’impossibile, professioni equiparabili a tecniche di pilotaggio, arti cibernetiche (governare per Platone era l’arte di timonare: il verbo kybernao in greco rinvia al timone, kybernes). Cura delle forme di convivenza, cura di chi si sta formando e cura della singolarità propria di ciascuno. Quella del professionista della cura è un’etica “servile” che non ha nulla a che fare con il titanismo sovrano del nostro tempo. Il saperci fare del mestierante è una virtù cibernetica perché è obbligato a seguire una materia-flusso e assecondarne la potenza, la spontanea generatività. La rotta è creata nell’atto stesso con cui ci si lascia disporre dal puro accadere delle cose, dalla potenza indisponibile dell’elemento. Ampliando l’idea di filiazione dalla dimensione biologica a quella simbolica, essere generativi vuol dire entrare nel flusso della vita, stare in un ambiente naturale, in un contesto relazionale o dentro la storia, senza né dominarli né venirne sommersi. Significa preoccuparsi per le generazioni future, il cui futuro è stato divorato in anticipo. Significa riconoscere che qualcosa ci supera e accettare che il generato, qualunque esso sia, troverà le sue vie, non sarà un nostro possesso.

Parleremo del conflitto intergenerazionale e di un dialogo possibile tra chi possiede la virtù cibernetica e i giovani che sentono di doversi impegnare e dare il proprio contributo nel decidere le regole del gioco, anche se ciò comporta rompere con il proprio ambiente di appartenenza. Per loro non tutto può essere già deciso. D’altro canto si registra un senso di impotenza abbastanza generalizzato perché la nostra società, fatta di soggettività disorientate e infragilite, si è affidata sempre di più alle potenti infrastrutture economiche, tecniche e istituzionali, pensando così di risolvere tutti i conflitti ed è sempre meno capace di elaborare ed esprimere valutazioni collettive sulla direzione da prendere. Lo straordinario sviluppo delle applicazioni tecniche stabilizza strutture e linguaggi disattivando i processi di significazione basati sul “legare insieme” (logos) la varietà delle esperienze, sia a livello soggettivo che collettivo. Come potranno, allora, le nuove generazioni, riuscire a non appagarsi delle possibilità previste per la loro esistenza e dar seguito alla scelta di sperimentare possibilità superiori?

La complessità del nostro tempo ci dice che ci troviamo in una “via difficile-amara che sempre si agita intorno perennemente inquieta” (pélagos), la cui verità è il suo generare isole (Cacciari). L’archi-pelagos è il mare originario, ricco di isole. 

Per questo abbiamo pensato di chiamare la rubrica di cultura e filosofia
“Arcipelago delle idee”

Che sia con angoscia o con gioia, per pensare le isole (idee) come nuove forme dell’abitare occorre prima sognarle, sognare di separarsi, di essere soli e perduti, lontano dalla terra ferma. Ricominciare, ricreare. Oggi assistiamo ad una incredibile intensificazione nella lotta delle idee, perché di questo è fatto il mondo. Per tutto ciò che riguarda il mondo, il modo in cui è organizzato, alla fine è sempre una questione di metafisica. C’è bisogno di liberarsi dal registro ristretto delle idee di identità, libertà, vita collettiva, terra, proprietà, limite e di reinvestirle nella relazione. Sono i legami, ovvero il senso di interdipendenza che libera e che apre le possibilità di agire.

Offrire nuove chiavi interpretative non vuol dire rincorrere i fatti, assumere il dato così come si dà, bensì individuare, con un atteggiamento critico e selettivo, ciò che nella contingenza della cronaca può acquisire lo spessore di un evento, una rilevanza storica. Cosa contraddistingue l’accadimento rilevante? Nella realtà che viviamo quotidianamente ci sono segni di quello che potrebbe accadere, di quello che potrebbe costituire un futuro simbolizzabile. Non sono segni facilmente leggibili, spesso sono nascosti, velati. Nella nostra rivista faremo attenzione non tanto a quello che semplicemente accade, ma a ciò che nella nostra esperienza ci colpisce perché particolarmente originale, raro, come ciò che allude a quello che sarà piuttosto che a quello che c’è già. Un po’ come nella psicoanalisi, cogliere ciò che di veramente interessante accade comporta farsi colpire da un elemento del reale e lasciare che influenzi la nostra percezione. Quello che conta è individuare e interpretare un dettaglio e leggere l’intera realtà a partire da questo elemento singolare. Niente è più importante, soprattutto per i giovani, che fare attenzione ai segnali che indicano che potrebbe accadere altro da quello che accade. Questi segni si trovano nelle esperienze vitali, in ciò che c’è in loro di originale, paradossale, irriducibile. Si trovano se si è formati ad osservare, a prendersi il tempo di scrutare attentamente e di discutere pubblicamente di quello che accade.

E allora occorre rivolgersi al reale, alla virtù cibernetica, alla congiunzione dell’impossibile e del contingente. Proprio a partire da un’impossibilità, che normalmente rende cinici e inerti spettatori, ci si può aprire al futuro, a patto però che non prevalga il senso di isolamento. Governare i flussi molteplici è possibile solo assecondandone la potenza, la cui materia è fatta di relazioni, affetti, modi di sentire, sensibilità. Per esempio quelle delle nuove generazioni: per loro esiste sì ciò che è dato, ciò che è già previsto che facciano, ma esiste anche quello di cui ancora non sanno di essere capaci. É ciò che si scopre quando ci si imbatte in qualcosa di imprevedibile. Ci si accorge di poter fare cose che non si ritenevano neanche possibili. È la cosa più importante, soprattutto in un momento in cui, come diceva Gramsci (ma in contesto storico, come quello attuale, completamente diverso), “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”.

Questa frase segnala un’analogia tra la situazione epocale descritta da Gramsci e quella nostra. In entrambe la classe dirigente sembra aver «perduto il consenso», ed un numero sempre maggiore di persone comincia a non credere più che gli interessi dei gruppi dominanti coincidano, nel profondo, con l’interesse generale. La classe al potere «non è più “dirigente” ma unicamente “dominante”». Eppure, nonostante questa perdita di autorità e di credito, l’ordine sociale si riproduce intatto. O, per meglio dire, viene bloccato e inibito il rinnovamento sociale e con esso anche il normale avvicendamento delle generazioni, di modo che ai «più giovani» non si lasciano «orizzonti aperti» (Gramsci)1.

“SAREMO L’INFERNO CHE CI STATE LASCIANDO”

Partiamo da un messaggio rappresentativo di un problema vitale del nostro tempo e cerchiamo di capire che esprime: «Saremo l’inferno che ci state lasciando». È il grido di una parte della nuova generazione, scritto su un muro della periferia romana. Segno di una militanza attiva o forse solo un messaggio nella bottiglia abbandonata tra i flutti del mare. Difficile dirlo.

La questione dei giovani mette in gioco la collettività intera in ciò che ha di più prezioso: il proprio futuro. La fascia che si trova oggi nella fase di transizione all’età adulta è stata definita come la “generazione interrotta”, presente eppure invisibile, messa all’angolo dalle cosiddette 3P: il precariato, la povertà e le preoccupazioni per il futuro della società e per il futuro del pianeta. Cose quest’ultime che sembrano slegate, eppure sono intrecciate, fanno parte di una medesima problematica.

La mancanza di condizioni affinché le nuove generazioni possano fare il proprio tempo e i giovani diventare gli adulti che vorranno essere dipende, come vedremo, dalla possibilità di riappropriarsi della capacità di proiezione e progettazione soffocata dal produttivismo tecno-nichilista oggi in crisi. Ma di una crisi lunghissima, che sembra non passare mai, irrisolvibile. Se la progettualità (l’esistenziale per definizione) è in rapporto al futuro, all’avvenire, e non al passato, la sfida è riappropriarsi di questo slancio coniugandolo alla spinta trasformativa e a quelle finalità a cui si attribuisce collettivamente valore. Già perché tra i millennials e gli under-29 (nativi digitali e “social”) stanno maturando nuove configurazioni di valori. Altro che nichilismo giovanile, al contrario. Cose che per le generazioni precedenti sembravano marginali o inesistenti (e che hanno portato al cosiddetto “capitalismo tecno-nichilistico”), per i giovani si delineano come nuove priorità: attenzione all’ambiente e alla qualità delle relazioni, apertura verso l’altro e verso gli altri esseri viventi.

Innanzitutto, perché dei giovani dovrebbero parlare persone di un’altra generazione e non lasciare direttamente a loro la parola? Non tocca forse ai giovani stessi raccontare la loro esperienza? Si vuole forse, ancora una volta, togliergli voce, come se non bastassero le oggettive difficoltà che già limitano le loro possibilità di realizzazione? Perché leggere le cose che scrive chi quell’inferno lo ha lasciato in eredità? Domande più che legittime. Non solo, infatti, questa rivista ospita una sezione gestita esclusivamente da under 35, ma questa è una rubrica di filosofia, cioè una forma-pensiero e un tipo di scrittura storicamente originati da un evento drammatico: la morte di Socrate seguita alla condanna per «corruzione della gioventù». Il pensiero filosofico nasce, dunque, rivolgendosi direttamente ai giovani in un discorso libero. Nel suo discorso è implicita la volontà di indurre chi si sta formando ad agire contro l’accettazione incondizionata degli obblighi imposti dalla società. Tanto più che il giovane si trova in quella fase cruciale della vita in cui deve decidere come costruire la propria esistenza. In effetti con la coppia Socrate-Platone si afferma una nuova idea di formazione come iniziazione ad un sentimento di «vita vera», in cui viene meno la distinzione tra il desiderio, l’amore (anche fisico) e il pensiero. Parlare di una vita intensa, eroticamente vera, non è cosa da poco. Significa parlare dello scarto tra ciò che la vita offre in base al mondo così com’è e ciò che essa può offrire in un altro mondo possibile. Vuol dire costruire nuovi insiemi, nuovi concatenamenti, ricombinare.
E dunque, implica una discussione sulle ragioni in base alle quali decidere di cambiare il mondo2.

Quando parliamo di “mondo” ci riferiamo innanzitutto ad una certa forma di organizzazione che si articola su piani diversi della vita sociale: materiale, istituzionale e culturale. Quest’ultimo, meno evidente ma decisivo, è il piano delle idee, dei simboli, dei valori, delle norme, dei discorsi, degli immaginari e delle speranze che sostengono e legittimano l’impegno degli individui all’intrapresa, al lavoro e al consumo. Si tratta di quel livello – un tempo chiamato ethos o spirito e legato ad una certa metafisica – che evolve congiuntamente agli altri due piani, materiale e istituzionale. Se cambiano i valori cambia il piano materiale e quello istituzionale3.

Semplificando, possiamo dire che il vincolo delle risorse materiali e istituzionali, cioè ambientali e sociali, consumate senza alcuna preoccupazione per la loro rigenerazione, insieme alla depressione degli investimenti (in economia si direbbe della “domanda interna”) dovuta all’invecchiamento, e ai livelli sempre più alti di disuguaglianza, ha messo in crisi la vecchia combinazione tra questi due livelli e lo spirito (i valori e i significati) che li informava. Se si pensa che il sistema come combinazione di questi diversi piani opera incanalando l’energia psichica delle persone, allora la crisi in corso è una crisi che può avere come esito la costruzione di una nuova combinazione tra attivazione psichica individuale e infrastruttura economico-sociale, e dunque una nuova economia psichica che capace di dare vitalità al desiderio e rendere possibile proiettarsi nel futuro. Ciò significa partire da un’indiscernibilità tra economia politica ed economia libidinale. Il desiderio ha sempre una portata sociale: non si desidera mai un solo oggetto, ma un mondo, un insieme i cui molteplici aspetti sono interconnessi.

Il progetto della rivista ha preso avvio tra due ricorrenze, che ci danno un po’ il senso di una necessità storica: la Festa della Liberazione (25 aprile), il bisogno ricorrente di una rinascita culturale per rifondare il con-vivere su nuove basi (la parola liberazione va associata alla ricostruzione morale, civile, economica e sociale con la quale nel nostro paese si avviò la fase costituente). L’altra celebrazione è la giornata della Festa del lavoro (1° maggio), un evento particolarmente festeggiato a Roma nella storica piazza di San Giovanni, con la musica e i giovani come protagonisti. Già la musica. Per noi sono stati i Greci per primi a capire che la parola narrante aveva bisogno di accompagnamento musicale e danza (rythmos) per rendere possibile un movimento politico di espressività creatrice. E così i giovani diventano protagonisti anche di giorno, non solo nell’oscurità delle ore notturne.
Ma cosa vuol dire essere giovane?
Quale condizione si trovano a vivere in questo tempo?
Tradizionalmente ciò che definiva l’essere giovane era il suo essere “non ancora adulto”, ossia “non ancora iniziato al mondo adulto”. E cosa vuol dire diventare adulti se le due categorie si rinviano l’una all’altra? Un tempo esisteva una soglia, una marcatura attraverso la quale il giovane faceva il suo ingresso nel mondo. I riti di passaggio erano il ponte che aiutava a varcare la “linea d’ombra” tra adolescenza ed età adulta. Oggi non ci sono più passaggi specifici, socialmente organizzati. Eppure un “mondo” si definisce attraverso le differenze che si determinano in esso. Nella nostra vita sociale domina il principio che tutto si equivale ed è potenzialmente a disposizione, e dunque che nulla ha veramente valore ad eccezione dell’unica cosa che conta, il denaro, in quanto è l’unità di misura di ogni possibile valore. Ci sembra la cosa più normale del mondo ma noi viviamo costantemente in rapporto diretto con un’astrazione. Non poggiamo più i nostri piedi sulla terra. Come equivalente universale e come riserva di valore, il denaro è ciò che rende possibile astrarre lo scambio dalla relazione. E questo ha conseguenze enormi di cui, in quanto moderni, non ci rendiamo conto.

L’equivalenza generale di tutte le cose sbarra ogni accesso a differenze reali. Un mondo della sostituibilità universale è un mondo privo di una vera e propria logica specifica. La vita diventa in buona parte la possibilità di comprare sempre cose nuove. L’attrattiva è quella dei desideri soddisfatti – desideri che si materializzano nelle cose da consumare – che alimentano la circolazione monetaria e l’organizzazione del mondo stesso. L’unica struttura simbolica rimasta è quella del mercato che privatizza tutto e organizza la circolazione delle merci e dei capitali4. Tutta la ricchezza narrativa che era alla base delle strutture simboliche, attraverso le quali gli individui imparavano come vivere e morire, come amare, come combattere, come rapportarsi agli altri, si è ridotta quasi a nulla e, come direbbe Marx, non lascia altro vincolo tra uomo e uomo che il nudo interesse. Sul piano sociale, la deregolamentazione dei sistemi finanziari e l’offerta pressoché illimitata della moneta (“feticcio di liquidità”), con il conseguente ricorso sconsiderato all’indebitamento come via per consentire l’accesso al consumo, hanno contribuito ad allontanare l’economia dalla realtà. Mettendo a disposizione risorse finanziarie pressoché illimitate e alimentando la sete del guadagno per il guadagno, il feticcio del denaro ha finito per rendere più debole il nesso tra economia e bisogni delle persone e delle comunità. Oltretutto ciò ha creato l’illusione che l’economia potesse crescere indiscriminatamente, prescindendo da ogni altra considerazione. In un mondo che aveva saturato i cosiddetti “bisogni primari”, si poneva l’esigenza non solo di includere nel circuito della produzione il maggior numero di ambiti dell’esistenza possibili, ma soprattutto far sì che al loro interno potessero rinascere continuamente esigenze da soddisfare, che fossero le stesse in tutto il mondo5.

Contemporaneamente, a livello psichico, si è imposta una cultura, un modo di sentire in base al quale il soggetto umano è strutturalmente mancante e perennemente alla ricerca di un soddisfacimento impossibile. Questo essere desiderante diventa qualcosa che si pone su un piano diverso rispetto al mero soddisfacimento di un bisogno e può essere sfruttato. Noi siamo questa forma di desiderio che non può mai essere né conosciuto né soddisfatto. Il desiderio, come si sa, è un potente generatore di energia vitale. Ma una cosa è considerarlo come una potenza capace di mettere in tensione la vita quotidiana con un’alterità che agisce come forza magnetica, altro è sfruttare questa tensione trasformandola in perenne insoddisfazione, proponendo il consumo come unica strada per colmare il vuoto su cui il desiderio in quanto tale si attiva. Un obiettivo quest’ultimo che si rivela sempre illusorio, dato che il vuoto non può mai essere riempito da oggetti, che devono sempre essere rinnovati per saturare ogni nuova mancanza, in un movimento circolare, senza fine. In questo modo gli individui sono indotti a trasferire il proprio stato mentale in oggetti esterni, la cui circolazione esorbitante fa sì che questi non siano più coordinati con la funzione simbolico-rappresentativa di un soggetto capace di assegnarli un significato personale.

A causa di questa forza de-territorializzante e de-soggettivante, il nostro mondo diventa così privo di mondità, tranne poi imbrigliare questa apparente libertà delle molteplici connessioni del mercato salvaguardando le relazioni di potere esistenti delle grandi corporation6. Quando questa passione acquisitiva (tipicamente adolescenziale) legata all’infinito potenziale della soddisfazione funziona anche a livello degli adulti, non ci sono più barriere simboliche fra l’essere giovani e l’essere adulti. L’adulto diviene semplicemente colui che ha qualche mezzo in più per consumare quello che desidera. Non ci sono più frontiere, limiti, passaggi, solo un’indistinzione tra le diverse età. Il giovane, sfruttato dalla pubblicità per le sue caratteristiche, fa girare la macchina e l’adulto, responsabile del suo funzionamento, incassa gli utili.

Con il depotenziamento narrativo-mitologico dovuto a questa “scarnificazione” dei valori, che si mettono in scena ormai solo come valore di mezzi, chi è preso nel divenire-adulto può avere come guida solo la carriera, il successo, il guadagno. E una parte dei giovani si ritrova in questa idea, in uno stile di vita in cui ciò che conta, il “summum bonum” da cui il resto trae la propria luce, è diventare ricchi, il posto al sole nell’ordine sociale esistente. C’è però un numero consistente di giovani (e non solo) che non si ritrova in queste aspirazioni e nel tipo di società cui dà luogo e fa fatica a costruire un progetto e un futuro alternativi alla sola passione per la posizione sociale redditizia7.

È chiaro che in un contesto di questo tipo il disorientamento si rifletta a maggior ragione nella giovinezza, età per definizione dell’erranza: interna al mondo adulto, ma anche altro, “altro senza essere altro”, senza sapere bene cosa sia, in quanto deprivata delle sue prerogative, assoggettata a desideri serializzati e uniformati da forze macroeconomiche. Come vedremo, una parte di coloro che non riescono a trovare una collocazione in questo modello di organizzazione socio-economica è preda della tentazione di bruciare la vita, di ribellarsi senza riuscire a costruire niente in alternativa. Al contempo, però, si fa spazio un modo differente di percepire il proprio essere-nel-mondo, qualcosa che si prepara da tempo ma che ha avuto un’accelerazione con il confinamento pandemico. In effetti questo evento ha portato nel giro di poco tempo molte persone ad abbandonare quello che consideravano la normalità, “il loro mondo”. Il mondo dominato dalla ragione economica si è fermato di colpo e si è creato un vuoto che ha permesso di vedere altro, ma anche, inversamente, di vedersi come altro, di percepire la propria condizione come alienata. La pandemia ha permesso di guardare fuori dalla “gabbia d’acciaio” delle leggi dell’Economia, che ha smesso di essere l’orizzonte insuperabile del nostro tempo. La multidimensionalità della crisi è lì ad indicarci qualcosa di fondamentale, e cioè che la stessa crescita economica non regge se non si fa carico delle condizioni per la sua rigenerazione. Ecco il vecchio che muore, di una morte lenta, anzi lentissima perché fa di tutto per non finire, per riciclarsi, contando sui rapporti di potere stabiliti, sulla rendita, sulle abitudini di pensare individualmente e nel breve termine, sulla paura di perdere quello che si è acquisito, su una spinta immunologica a ricreare sfere di comfort privato. E così il nuovo non può nascere. Attraversare l’interregno significa passare da un mondo in cui bastava liberare le energie economico-finanziarie per stabilizzare la società ad uno in cui diventa di vitale importanza occuparsi di una serie di interdipendenze. Ora ciascuno si deve chiedere: “da cosa dipendo per esistere?”.

Uno spettro si aggira per l’Italia, quello di una “questione demografica” (che rischia di essere pervertita dalla politica in una “questione etnica”), che rimanda alla angoscia di una collettività che teme di estinguersi, di non potersi perpetuare attraverso le generazioni (o di essere superata da popolazioni più giovani, più forti fisicamente). Mentre un tempo la storia era il regno della rinuncia al consumo in nome del futuro, oggi il consumo è diventato l’alfa e l’omega della post-storia (Sloterdijk). Per questo Nietzsche aveva dato il nome di “ultimo uomo” al consumatore. In un eccesso di pragmatismo, siamo diventati ultimi nel momento in cui abbiamo accettato di esistere come consumatori di debole ascendenza e privi di discendenza, di cui è testimonianza il rapido calo di natalità, al di sotto della quota di riproduzione. La vera posta in gioco è il tema della sostenibilità umana. L’incremento generalizzato del benessere e l’allungamento della vita hanno fatto credere di non potersi curare di un fattore cruciale per la vita di una società: l’alleanza intergenerazionale. Un mondo adulto sempre più autoreferenziale ha ridotto le possibilità per la nuova generazione di proiettarsi nel futuro8. Le società avanzate, e in particolare quella italiana, sono costrette ad affrontare il tema di un equilibrio intergenerazionale sempre più difficile da raggiungere (tra politiche famigliari di nuova generazione, una maggiore flessibilità per l’età pensionabile e il ruolo delle migrazioni). Quello che colpisce di più è la diversità di destino che è toccato alle ultime tre generazioni. La prima generazione ha visto aumentare sia i salari che i servizi di welfare (una condizione molto favorevole che le ha permesso un’accumulazione privata consistente); la seconda ha avuto un facile accesso al consumo individualizzato ma ha potuto solo conservare il patrimonio ereditato; la terza entra nella vita adulta tra mille difficoltà (poche possibilità di lavoro, prezzi altissimi della case cc.). Non è chiaro se e in che misura tutto ciò potrà trasformarsi in una spinta all’intraprendenza, ma certamente colpisce il fatto che la generazione che fa il suo ingresso nella vita attiva oggi deve fare i conti con aspettative di qualità della vita in diminuzione rispetto alla generazione precedente. Questo scarto intergenerazionale non è forse un sintomo evidente della non sostenibilità dell’attuale modello di scambio economico e sociale, di cui il degrado ecologico è solo il sintomo più evidente? Come dice Magatti, la sostenibilità integrale oggi è innanzitutto un atto di realismo che impone di tornare a pensare davvero “economicamente”, cioè in un quadro di risorse non illimitate, dentro una rete di relazioni in senso ampio ecologiche. Il problema è quello di un nuovo spirito, già intimamente sentito da una ampia fascia della nuova generazione, ma che fatica ad imporsi su larga scala.

Torniamo alla storica piazza di San Giovanni a Roma in cui si fa il punto sul mondo del lavoro (o “sul lavoro dello spirito” potremmo dire con un certo azzardo), cioè sulle opportunità di realizzazione per le nuove generazioni. A maggior ragione in una società postindustriale, dove una rilevante parte della produzione è passata ai beni immateriali, ai servizi, il lavoro non può più essere inteso come qualcosa di penoso, di sacrificale, che mortifica la vita, ma acquisisce il senso della vocazione, di qualcosa cioè che deve poter dare la possibilità a ciascuno di contribuire al bene comune dedicandosi a ciò per cui si sente chiamato. In questo luogo carico di storia uno scienziato9, un intellettuale, lancia un appello ai giovani: «Non è tutto meraviglioso. Ci sono problemi seri e solo voi potete affrontarli. C’è una catastrofe ecologica che sta arrivando e rischia di rovinarvi il futuro e nessuno prende le decisioni per fermarla perché a qualcuno dà fastidio. Ci sono diseguaglianze che crescono […] Questo non è il mondo che ci piace: il mondo non è dei signori della guerra, ma vostro, perché siete tantissimi e il mondo potete cambiarlo, insieme, potete fermare la distruzione del paese […] costruire un mondo lavorando assieme per risolvere i problemi. Sognate un mondo migliore e costruitelo. Non vivete nell’attesa di sogni irrealizzati. Non abbiate paura di imbrattare i muri, cambiate questo mondo».

Cosa troviamo in queste parole? Innanzitutto il contesto è quello della Festa dei lavoratori, il palcoscenico giusto per lanciare un appello ai giovani, perché il lavoro era l’ultima forma di iniziazione rimasta. Un’iniziazione da intendersi un po’ come l’apprendistato di un tempo, che terminava quando il soggetto riusciva a fondersi con i rapporti sussistenti, si inseriva nella concatenazione del mondo e vi acquistava un posto adeguato (Hegel). Era così che sembrava cominciare la vita adulta. Quando, come oggi, la società non è più in grado di fornire ai giovani un futuro attraverso il lavoro, questo non può non avere dei contraccolpi seri nella vita della società.

Stiamo lasciando alle nuove generazioni un mondo d’angoscia, in cui il lavoratore dipendente si deve ritenere fortunato se fa parte degli eletti che un lavoro ce l’ha, dove Il lavoro diventa il premio di una competizione tutta individualistica. Non era però questa l’idea dei padri costituenti, che avevano pensato il lavoro come il nucleo politico di una persona. Un individuo mentre produce beni produce se stesso, cioè il mondo a cui si relaziona, e dunque produce legame sociale, cittadinanza. Attraverso il lavoro si diventa uomini e donne. Da questo punto di vista, il 1° maggio è la festa dell’ingresso dei giovani nel mondo dell’attività produttiva, un mondo che deve essere messo alla prova passando attraverso lo spirito, l’ethos delle nuove generazioni. Perché se l’aria diventa irrespirabile e io che sono giovane devo vivere più a lungo, allora la mia voce è fondamentale per cambiare le regole. E l’aria si è fatta irrespirabile.

I professori nelle università sono tutti unanimi nel denunciare uno scenario inquietante che precluderebbe al nostro paese ogni possibilità di sviluppo: tra i giovani è radicato ormai il convincimento che in Italia non ci siano opportunità basate sul valore delle idee e delle persone e dove è inutile provare a realizzarsi. Una disillusione che si riscontra nei dati dell’assenteismo alle ultime elezioni politiche pari al 43%. L’assenza di merito (che resta una questione molto complessa e controversa), i bassi stipendi (inferiori a quelli di trent’anni fa secondo l’Ocse) e pochi posti di lavoro qualificato, spingono un numero impressionante di laureati a lasciare il paese (circa quattrocentomila negli ultimi 10 anni). Se fino agli anni ‘90 i giovani riuscivano ancora in qualche modo a far sentire le loro ragioni, negli ultimi due decenni quella stessa energia, una volta spesa nel confronto generazionale, viene ora impiegata nel difficile percorso di emigrazione e integrazione in altri paesi. Quelli che rimangono, essendo sempre meno, non riescono ad incidere con le loro capacità innovative e con il tempo tendono ad omologarsi alle logiche delle generazioni più anziane. La conseguenza è che la società è plasmata da anni su obiettivi in buona parte estranei all’energetica del mondo giovanile. Quante altre generazioni vogliamo soffocare prima di dare a chi appartiene a questo mondo le opportunità effettive di realizzare ciò a cui attribuisce valore?

Quando si è cominciato a parlare di sostenibilità (dal latino, indica la capacità di “tenere su” e dunque di far durare nel tempo) il riferimento era comunque alle “generazioni future”. Questo rinvio oggi non ha più senso. Siamo ormai al punto in cui i problemi ecosistemici hanno riflessi immediati sulla vita sociale, per cui non è più possibile, come abbiamo visto, separare la questione della sostenibilità ambientale da quella sociale, economica e umana10. Dappertutto la politica non sembra all’altezza dei problemi che si devono affrontare. D’altra parte, come potrebbe essere diversamente visto che siamo stati presi negli ultimi decenni dal mito dell’espansione infinita che dispensava dalla responsabilità di pensare? L’idea che ci sia un unico senso della storia in termini di progresso “materiale” non è più sostenibile e deve lasciare il posto ad una moltiplicazione delle pratiche necessarie al mantenimento della vita. Pratiche che sono sotto il segno della cura, del prendersi cura. Diventa sempre più evidente che all’interno del nostro modello economico produrre non ha più il significato di generare. Si fa largo una nuova consapevolezza sul fatto che la produzione non può più essere disgiunta dalla generatività, cioè dal far nascere e mantenere, attraverso forme di cura, la continuità degli esseri (sia in senso sincronico che diacronico) da cui dipende l’abitabilità del mondo.

A risvegliare le coscienze il 1° maggio è uno scienziato, come tanti altri impegnati nelle nuove scienze del sistema Terra e nelle battaglie ecologiche. Prima però di analizzare più direttamente il senso dell’appello ai giovani, dobbiamo fare una premessa sulla sovrapponibilità tra ecologia e politica nei terrestri di nuova generazione. Si sente dire che gli scienziati si devono occupare di scienza e non di politica. In effetti qui esiste un problema perché in merito alle questioni scientifiche, come ad esempio il cambiamento climatico, le discussioni non riguardano tanto i fatti e le informazioni, quanto la politica. È un errore pensare che le persone che sanno di scienza si indirizzino necessariamente verso misure di contrasto al cambiamento climatico. Ad esempio, per contrastare l’enorme influenza dell’industria dei combustibili fossili sulla politica democratica si dovrebbero riconsiderare gli atteggiamenti consumistici che ci portano a trattare la natura in modo strumentale, come una discarica, secondo quella che papa Francesco ha chiamato “cultura dello scarto”. Queste non sono questioni scientifiche a cui devono rispondere gli esperti, ma questioni che riguardano il potere, l’etica, la fiducia, a cui devono rispondere cittadini di una democrazia11. Congiuntamente al fisico, a parlare sarà allo stesso tempo il cittadino Rovelli, in una modalità che rende scienza e politica indistinguibili. A ben vedere, tutti coloro che condividono questo appello sono chiamati ad essere cittadini democratici, ma anche fisici, o meglio metafisici, portatori di una nuova visione del reale, con una inedita sensibilità per l’interdipendenza. “Chi siamo” dipende dal rapporto che abbiamo con ciò che ci sta intorno, dal nostro modo di posizionarci nel mondo. Una nuova cosmologia s’impone, diretta conseguenza di una ontologia relazionista, in cui un individuo è ciò che è in forza della rete che lo lega ad altri agenti e la sua identità, per così dire, muta al mutare di quella rete. È una sorta di astrazione quella che ci fa percepire come entità singole, separate tra loro per natura, come se fossimo punti isolati dal resto fatto di cose inerti. A partire da questa esperienza disastrosa di anomia e perdita di senso all’interno di una società altamente frammentata si avverte un gran bisogno di concretezza. È ora di percepirsi in continuità con il reale, con il solidus che la solidarietà comporta, e con tutte le altre forme di vita, che rappresentano, al pari di noi umani, una rete di agenti. Ciascuno di noi non è altro che il “modo”, spinozianamente, in cui si rapporta a questa rete intricatissima, un singolo nodo di una rete che si co-determina e con-cresce (Whitehead) con gli altri nodi o attori-rete. Perché ci ostiniamo a vivere sulla terra come se abitassimo in un altro pianeta o più pianeti, che non sono la Terra?

L’importanza storica delle gravi crisi ecologiche non sta nella nuova preoccupazione per la natura, quanto per la consapevolezza che sta maturando di non poter più continuare a immaginare da una parte la politica e dall’altra la natura, pensata come riserva, risorsa, discarica pubblica o al limite spauracchio. Viviamo ancora sotto il principio di disgiunzione che ha isolato radicalmente i domini ontologici (la realtà), disciplinari (il sapere), alimentando l’illusione che la realtà sia dominabile attraverso la sua parcellizzazione. L’appropriazione della conoscenza sui problemi vitali da parte dello specialismo scientista ha creato un indebolimento della percezione globale dei problemi, il cui effetto è stato una perdita del senso di responsabilità e un deficit di democrazia. Più la politica diventa tecnica più si determinano una serie di conseguenze, tra le quali l’accettazione “ignorante” delle decisioni di coloro che si ritiene possessori della conoscenza, ma la cui intelligenza è cieca perché parcellizzata e astratta. Questa illusione si dissolve se facciamo della “relazione” il nostro modo di essere, un essere-con oggetti che non sono più solo naturali e con soggetti che non sono più solo umani. Questa apparente confusione è in realtà lo stabilirsi di una continuità d’essere.

Un tempo abbiamo voluto credere che buona parte della natura non reagisse alle nostre azioni, ora ci ha mostrato che lo fa a tutti i livelli (virus, fiumi ecc.). Sembrava che si potesse dare un unico senso alla storia, orientarlo. Siamo stati abituati a percepire ciò che ci circonda e che definiamo “natura” come ciò che il modello economico, astrattamente, lasciava fuori del proprio orizzonte, in una posizione di esteriorità rispetto alle preoccupazioni sociali, incorporandola unicamente sotto forma di risorsa da mobilitare in vista della produzione. Questo significa che esistevano almeno due mondi distinti: quello di cui si viveva, la natura come risorsa a disposizione, e quello in cui si viveva, la natura come mondo-ambiente da abitare. Ma, come abbiamo detto, il corso degli eventi è cambiato. Fino a quando si trattava di mobilitare le energie per aumentare la produzione non c’erano grossi problemi perché lo sviluppo andava nel senso della storia. Oggi, però, il futuro sembra una terra straniera, perché si comincia ad associare il nostro modello di produzione e di crescita alla distruzione delle condizioni di abitabilità del pianeta. E, come sappiamo, in mancanza di un’idea di futuro e di risposte adeguate al presente, a dilagare è la paura di perdere quel poco che si ha, con tutto quello che comporta in termini di odio verso il prossimo, soprattutto quello con cui non ci si può identificare. Allora ci si trova impotenti e sfiduciati nella capacità di mobilitazione per far fronte alle crisi. Ci si accorge che la direzione dell’azione e della storia non è più la stessa. Si scopre che ciascun essere vivente ha il proprio modo di fare la storia in libera evoluzione con e contro di noi (Latour). Non più una contrapposizione tra materiale e spirituale, ma tra la vita sulla terra, come qualcosa di esterno da sfruttare, e la vita con Terra.

Durante il confinamento ciò che fino a quel momento era stato chiamato «Economia» con la E maiuscola e che faceva tutt’uno con quello che le persone normali chiamavano «il loro mondo» si è fermato di colpo. All’improvviso, ciò che era stato considerato l’incontrovertibile fondamento dell’esistenza, l’«infrastruttura» della vita moderna, è apparso superficiale mentre, parallelamente, si infiltravano al di sotto, come sue fondamenta morali, le preoccupazioni riproduttive e le questioni di sussistenza, proprio ciò che era stato ritenuto trascurabile. Il punto è che l’Economia, pur occupandosi delle cose più vicine alle nostre preoccupazioni quotidiane, insiste a trattarle come se fossero lontane, come se venissero dall’alto e non dalla nostra esperienza pratica, comune, dei rapporti che le forme di vita intrattengono con le altre forme di vita. C’è voluto un enorme lavoro, durato secoli, da parte delle astrazioni delle teorie economiche, ma alla fine hanno vinto la resistenza della comune esperienza. E il risultato è il disorientamento, un malessere diffuso e latente che non riesce a canalizzarsi e spesso si trasforma in violenza insensata.

Perché allora non ripartire dal luogo in cui abitiamo? Perché non diventare più pragmatici, più realisti? Perché continuare a vivere nella “natura” inventata dagli economisti che vedono tutto attraverso lo spettro dei loro calcoli? Perché non compiere lo sforzo di situarsi in un luogo concreto, da descrivere insieme ad altri? Chi venisse, ad esempio, dal medioevo potrebbe tranquillamente domandare: «Perché avete deciso di suddividere in questo modo le forme di vita per risolvere le vostre preoccupazioni riproduttive?». L’Economia è ciò che sostituisce con calcoli il dialogo contraddittorio e collettivo che si potrebbe produrre se i protagonisti formassero un popolo che abita un territorio, ovvero se le persone fossero capaci di tenere in considerazione la sovrapposizione delle diverse forme di vita. La parola “territorio” ha ormai assunto un significato esistenziale. Ecologia è ciò che diventa l’Economia quando la descrizione dei legami di interdipendenza che quest’ultima voleva chiudere riprende, restituendo in questo modo alle persone il gusto di agire.

Per quelli che vivevano prima del confinamento era normale cominciare dal proprio io e aggiungere un contesto materiale. Quelli che ancora si ritengono gli unici esseri dotati di coscienza in mezzo a cose inerti considerano esseri viventi solo se stessi e ciò che afferisce alla loro esperienza (i loro cani, gatti, perfino le loro piante). Ma su Terra tutto è vivente, tutto è suscettibile di intrecciarsi in un territorio comune. Quelli che vengono dopo l’esperienza di confinamento non possono più condividere questa visione del mondo. Per essi tutto quello che si incontra è il prodotto di agentività intrecciate, disperse ovunque. Per capire questo punto dovremmo far ruotare il nostro modo di fare esperienza di 180 gradi: non è più il mondo che emerge dal soggetto o l’esperienza che presuppone la coscienza, ma è il soggetto-coscienza che emerge dal mondo-esperienza come da uno sfondo ricco e nebuloso, da pensare come una sorta di associazione di partecipanti che si trovano riuniti e fanno esistere una cosa12. Abbiamo pensato che il “costruire” caratterizzasse gli uomini come esseri dotati di intelletto e volontà, che operano sulla materia inerte all’interno di uno spazio vuoto, e che fosse la condizione dell’abitare. Con Heidegger dobbiamo ribaltare il rapporto: non è che noi abitiamo perché abbiamo costruito, ma costruiamo perché abitiamo. Quando l’astratto è preso per il concreto, il mondo perde il suo radicamento all’abitare.

Da questo punto di vista, il “conflitto generazionale” è qualcosa che va oltre un semplice esempio di incomunicabilità tra esseri umani. È un conflitto sulle preoccupazioni generative, sul modo di declinare il rapporto ascendenti discendenti nella misura in cui le loro preoccupazioni necessariamente si incrociano. Un conflitto che vede, da una parte, coloro che riconoscono di essere venuti al mondo con un bisogno congenito di cure, di avere predecessori e successori; e dall’altra parte, coloro che hanno dimenticato la loro genesi e credono di essere da sempre compiuti, “usciti bell’e fatti dalla coscia di Universo”. Si scopre che su terra imperversa una religione laicizzata, che ha messo insieme il vecchio «God» e il «Dio denaro» in un progetto ormai esplicito di fuga dal mondo, che rende lecito sfruttare e consumare quante più risorse possibili lasciando chi resta al proprio destino. Il confinamento ha fatto comprendere ai terrestri che la fuga dal mondo non è una buona soluzione per la conquista della felicità. È come se i moderni avessero scelto di vivere su altri pianeti, diversi da quello propriamente loro, tra i quali, come dice Latour, c’è il pianeta Globalizzazione, nel quale esseri umani vuol dire «restare allegramente indifferenti alla sorte del pianeta»; «c’è il pianeta che potremo chiamare Exit, abitato da quelli che hanno capito fin troppo bene i limiti della terra e perciò hanno deciso di abbandonarla»; c’è poi «il pianeta Sicurezza, quello dei reietti che si raggruppano in nazioni solidamente confinate, a loro volta del tutto deterritorializzate, ma che sperano possano proteggerli». Per ultimo, c’è il pianeta che dovrebbe tornare primo tra gli altri, quello di coloro che non hanno mai lasciato il nostro pianeta, quello dove le cose si contaminano, cospirano, si diffondono, si intrecciano, si complicano (tipo il sistema leibniziano che si rappresenta come una rete o una “matassa” infinita). Un pianeta ridiventato finalmente attuale.

Il problema verte, dunque, sulla necessità di coniugare due termini, ecologia e politica, in modo da superare il divario apparentemente incolmabile tra la scienza, incaricata di comprendere il mondo naturale, e la politica, che ha il compito di regolare ciò che potremmo chiamare (con riferimento al tema che stiamo affrontando) l’”inferno sociale”. Sembra una divagazione, ma parlare della insoddisfazione della nuova generazione vuol dire tentare di esplicitare prima di tutto le nuove sensibilità. Da una certa concezione della scienza, ad esempio, dipende non solo l’idea di natura13, ma anche l’idea di politica, cioè di quella dimensione che riflette l’antagonismo originario della società, la sua conflittualità. La domanda sulla natura, sul nostro ambiente naturale, non deve essere considerata isolatamente, ma va posta congiuntamente alla politica. Le catastrofi ambientali, lungi dall’essere semplici fatti isolati, devono essere considerate anche, allo stesso tempo, come catastrofi culturali e catastrofi della politica democratica, perché mettono in gioco il nostro modo di guardare alle scienze e il nostro modo di deliberare insieme su questioni cruciali per la sopravvivenza.

La prima cosa che emerge è la necessità di mettere in questione le tradizionali dicotomie di natura/società, soggetto/oggetto. Quella che ci troviamo di fronte non è semplicemente una crisi ecologica, ma una vera e propria “crisi dell’oggettività”, perché la realtà esterna non ha più il volto della natura indifferente. Il covid, ad esempio, è stato un prodotto della natura o della società? Oggi assistiamo al moltiplicarsi di fenomeni (“oggetti”) che non è più possibile relegare al solo mondo naturale e che finiscono per mettere in discussione la tradizionale classificazione degli esseri. Dal momento in cui la realtà esterna non è più costituita solo da semplici oggetti naturali manipolabili, ma da ibridi di natura e cultura, incontrollabili e incerti, che sfuggono a definizioni rigide, allora dobbiamo sviluppare quella che Latour chiama un’«antropologia simmetrica», che studi insieme l’umano e il non umano.

Questa è stata un’altra lezione del covid. Cosa si può fare, infatti, con un virus che non la smette di diffondersi, contaminare, sorprendere, e che le scienze (al plurale), lungi dal contenerlo, devono inseguire evolvendo insieme a lui? Ci siamo accorti che la cosiddetta natura è fatta di esseri viventi che reagiscono alle nostre azioni. Non siamo più esseri umani che sono nella natura, quasi fosse un contenitore inerte, ma esseri viventi insieme ad altri esseri viventi e che mutano insieme ad essi. Con la conseguenza che la politica stessa deve allargarsi, tenendo in considerazione la molteplicità dei viventi non umani, non fosse altro per il fatto che sono il nostro habitat, un ambiente vitale che neanche l’onnipotenza della tecnologia potrebbe ricreare artificialmente. Ovviamente tutto ciò prevede anche nuove istituzioni, in cui questa “democrazia allargata” possa essere esercitata.

In questo modo la realtà esterna smette di essere una natura muta e passiva che la scienza si incarica di interpretare e di determinare, e assume finalmente le sembianze di una “grande assemblea” di viventi (compresi i non umani) che “rivendicano” per così dire i loro diritti. Per questo sono richiesti diversi interpreti: non più solo scienziati, ma anche politici, economisti, amministratori, giuristi, filosofi. Non solo gli attivisti ecologici, tutti possono dare il loro contributo per la grande Causa della abitabilità dell’ambiente. Ma, è bene specificarlo, questo non ha niente a che fare con le campagne ambientaliste di coloro che propongono il vecchio mito di una natura incontaminata, perpetuando l’eterna scissione natura/cultura. Ua volta eliminata la vecchia idea di natura, può iniziare la nuova politica, o meglio l’ecologia politica e con essa una nuova cosmologia.

Non tutto è meraviglioso, ci sono problemi seri

L’appello nel corso della Festa dei lavoratori comincia con una negazione, vuole svegliare rispetto ad una comfort zone fatta di inerzia inquieta e colpevole rassegnazione. Quando tutto è organizzato secondo una logica di consumo, si è indotti a disinteressarsi delle conseguenze dei propri comportamenti e a vivere secondo l’incuria strutturale che privilegia il breve termine, penalizzando sistematicamente il lungo termine delle generazioni future. C’è bisogno prima di tutto di creare un vuoto nel campo dell’ideologia che domina i nostri pensieri. Prima ancora di raccogliersi in una serie di rivendicazioni pragmatiche, deve potersi esprimere l’energia della protesta in modo da creare una cesura, una discontinuità, quasi un silenzio.

Questo dichiarazione “negativa” non può non richiamare il «preferirei di no» di Bartleby di Melville. Proviamo a rileggere la frase in modo da cambiare il senso della negazione. Se rovescio il negativo la frase diventa: «c’è qualcosa di seriamente non-meraviglioso», significa affermare un non-predicato. Come dire, «tu sai che ci sono problemi ma in fondo pensi che questo sia “il migliore dei mondi possibili” e che i problemi sono cosa da poco». Invece no, occorre un atto di sottrazione, uno scarto capace di creare uno spazio vuoto. Un rifiuto che prelude al Nuovo, ad un cambiamento dei termini stessi del discorso. Se do un significato affermativo alla frase cambia tutto. Si modifica il “No”, che ora prelude ad un discorso che non riguarda ciò che non vogliamo, ma ciò che vogliamo. Diventa il discorso di chi si chiede quale forma di organizzazione sociale può sostituire quella attuale. Ricorda la vecchia domanda rivoluzionaria sul «che fare?». Il vero problema riguarda l’organizzazione della protesta: finché l’appello rimane sul piano di una provocazione (isterica) del Padrone, senza un programma positivo finalizzato alla sostituzione del vecchio ordine, si riproporrà prima o poi una richiesta (sconfessata naturalmente) di un nuovo Padrone. In altri termini, quando si esige la fine di qualcosa (negazione) senza avere un’idea su cosa mettere al suo posto (affermazione) di fatto si ripone ogni vera decisione nelle mani di coloro che si combatte.

Occorre proclamare, allora, una serie di “Preferirei di no”: no al giovanilismo di facciata, con il quale si cerca il giovane per esporlo e vendere, salvo poi sbarazzarsene dopo qualche anno perché non fa più immagine (e pazienza per l’esperienza fatta e le competenze maturate); no ad non mondo fatto per chi invecchia; no ad un bullismo del modello competitivo che divide in due generando vincitori e vinti; no al consumo individualizzato e a debito, che rivela la debolezza delle teorie economiche che hanno dominato gli ultimi decenni; no consumo delle risorse ambientali e sociali senza preoccupazione per la loro rigenerazione; no ai livelli crescenti di disuguaglianza; no ad una comunicazione della insensatezza generalizzata, in cui si può dire tutto e il suo contrario perché chi comunica si sottrae ad una precisa identità comunicativa; no a un mondo senza più ideali14, in cui è diventato difficile distinguere l’aspirazione al miglioramento dalla sola spinta ad annullare l’avversario; no ad una cultura che pensa ancora la “comunità di destino” nei termini di un legame nazionalistico e non in termini planetari.

Il problema (si fa per dire) è che gli intellettuali non sono più nella posizione del «soggetto supposto sapere», non hanno più quel ruolo di avanguardia che conosce le leggi della storia e può guidare sulla via del progresso. La situazione è più simile a quella del trattamento psicoanalitico, in cui chi è analizzato possiede le risposte (i sintomi) di una domanda che non conosce, e il ruolo dell’analista è quello di aiutarlo a formulare tale domanda. È un po’ anche la nostra condizione: abbiamo una risposta, anche un po’ poetica – «Saremo l’inferno che ci state lasciando» – e dobbiamo mettere a fuoco la domanda, perché, come dice Castoriadis: «L’uomo è un animale inconsciamente filosofico, che s’è posto nei fatti le domande della filosofia, molto prima che la filosofia esistesse come riflessione esplicita; ed è un animale poetico, che ha fornito nell’immaginario le risposte a quelle domande».

Per molto tempo la capacità di riconoscere gli elementi problematici si è affievolita. Siamo stati tutti presi dal mito dell’espansione infinita che dispensava dalla responsabilità di pensare. La società non è più abituata a fare i conti con ciò che non va, con i propri limiti e le proprie contraddizioni. Riprendere la strada di una prospettiva futura, immaginando nuovi assetti per riattivare dei processi di crescita, non è semplice. Non tutti però la pensano così. Una parte della popolazione, infatti, sebbene sia disposta a riconoscere la necessità di apportare delle riforme, pensa anche che la ripresa debba avvenire nel quadro dell’ordine precedente. Altri, invece, pensano che queste semplici riforme sarebbero interventi fuorvianti se fossero confusi con la reale soluzione dei problemi. Un po’ come scambiare la zattera di salvataggio con la terraferma. Riattivare dei processi di crescita è un’operazione radicale, perché deve essere associata ad una certa idea di valore, libertà, giustizia. Significa, dunque, trasformare lo status quo dell’ordine stabilito nella domanda: cosa è crescita? Mettere in questione il modello di crescita pone, a sua volta, la questione del “risveglio della storia” (Badiou), ovvero dell’insorgere di una capacità distruttrice e al tempo stesso creatrice.

NOTE

1 – A dispetto del calo costante di autorità e consenso, nel nostro tempo i detentori del potere (intreccio tra politica e economia) restano al loro posto proprio perché lo spettro della possibile catastrofe ostacola a tal punto ogni plausibile alternativa da farla apparire come un’inutile utopia. E così, quando l’insicurezza che domina la vita contemporanea si cronicizza non rimane altra scelta che affidarsi a quelle stesse forze nei confronti delle quali cresce la diffidenza e la disillusione. Questo realismo depressivo come prospettiva al ribasso non può essere accettato da una parte di giovani, che si ribellano e lanciano il loro grido.

2 – Nel campo della formazione la filosofia può fare tantissimo nel promuovere una sorta di “pensiero al contrario” che distingue deleuzianamente il pensiero dalla conoscenza. Questa forma di pensiero non identifica, non dà propriamente conoscenza, ma si muove oltre ciò che è noto, verso la differenza che passa sotto, dietro e dentro di esso. C’è sempre altro da pensare. La conoscenza si ferma, il pensiero passa avanti verso altre possibilità. Per esso ci vuole coraggio.

3 – Lo spirito lavora, e il lavoro è innanzitutto il lavoro del pensiero e della conoscenza a cui mette capo: la forma di attività che rispecchi l’eccellenza dell’umano è questa conoscenza, che ha nell’individuazione dell’idea il fattore massimo di produttività. In fondo prima ancora che il denaro a muovere il mondo (verso la guerra o verso il progresso) sono le idee e il modo in cui le raccontiamo.

4 – Negli ultimi decenni si è pensato che la crescita della capacità produttiva, o addirittura finanziaria (slegata dalla economia reale), avrebbe consentito di risolvere il problema della scarsità, marginalizzando il ruolo del lavoro nella nostra vita (di fatto lo scopo del nostro modello produttivo è stato tagliare il costo del lavoro e aumentare i profitti). Sempre più segnali indicano la fine della civiltà del lavoro inteso come strumento di emancipazione individuale e collettiva. Nello stesso tempo la capacità produttiva è aumentata talmente tanto che ci troviamo nella condizione di dover fare un salto da giganti per poter ridurre la pressione sull’ambiente e il consumo delle risorse (ultimo rapporto del Club di Roma). In questo modo le grandi potenzialità della nostra epoca si sono trasformate in problemi.

5 – Mi riferisco alla nuova alleanza tra tecnica e nichilismo che determina una innovazione continua e un accorciamento del ciclo di vita dei prodotti, in modo tale da essere sostituiti continuamente per stimolare il consumatore.

6 – L’ordine creato dal mercato, che doveva essere spontaneo e garantire libertà, è ottenuto grazie al controllo preventivo delle scelte degli individui, che poggia sull’intreccio tra la forza economica dei diversi soggetti, la loro autorità politica e la competenza tecnica di cui dispongono. La questione basilare del neoliberalismo è stata ed è la corretta misurazione del valore, ossia il valore di ogni performance, idea, progetto o impresa. Si pensava che affidando la misurazione ad algoritmi impersonali e ciechi si potesse contrastare a monte il rischio dell’abuso di potere. In realtà, in questi ultimi decenni si è visto che quanto più a fondo i dispositivi di calcolo penetrano nella vita sociale, tanto più questa “vita” è messa al servizio delle relazioni di potere, la creatività è sottomessa al controllo e l’intelligenza è svuotata e trasformata in mera tecnica amministrativa (De Carolis). In termini deleuziani, si ottiene in questo modo una “riterritorializzazione” tanto subdola quanto efficace: il neocapitalismo non assoggetta, asservisce; non disciplina, controlla.

7 – La sfida del futuro è di riuscire a mettere l’accento sulla misura, questa volta, del benessere della popolazione in un contesto di sostenibilità piuttosto che sulla sola produzione economica. Parlare di misurazione del benessere vuol dire riferirsi, come elemento primario per il modello di sviluppo, alla qualità della vita, che dipende dalle diverse condizioni oggettive in cui si trovano le persone, tra le quali primaria importanza assumono le condizioni ambientali.

8 – Il riferimento è al mito di Kronos e “cronismo psicologico” può essere definita la fantasia di eternità che spinge a negare la generatività, ad ostacolare l’attitudine umana ad inventare nuove forme di convivenza, nuove vie per la riproduzione materiale, istituzionale e culturale della vita.

9 – Si tratta del fisico Carlo Rovelli.

10 – Le conseguenze dell’organizzazione socio-economica, divenute così rilevanti da cambiare le condizioni di vita sulla terra, si sviluppano su diversi piani: ecosistemico, informativo (la crescita delle possibilità di vita ha come effetto un aumento dei flussi informativi che, se per un verso accresce la possibilità di conoscenza, per altro produce disordine, disorientamento, incertezza, smarrimento di fronte ad una realtà che non risulta più leggibile), il piano della disorganizzazione sociale (forti disuguaglianze, squilibri demografici e territoriali, sommovimenti migratori, tensioni geopolitiche) e quello del disordine psico-sociale (implosione del desiderio e della motivazione, depressione, insofferenza verso le differenze, ritorno dell’odio etnico, standardizzazione dei comportamenti, problemi di concentrazione e attenzione che hanno riflessi negativi sull’apprendimento). È accettabile continuare a mantenere autonoma l’economia a spese delle società, a scapito di una migliore qualità delle relazioni?

11 – Lo si è visto nella emergenza della pandemia: nessuno può mettere in dubbio che le competenze scientifiche siano essenziali per un’efficace azione politica, ma nessuna di esse in quanto tali è in grado di pensare a come i diversi aspetti di una crisi possano essere connessi tra loro, in base a quale ordine complessivo e in vista di quale fine si debbano affrontare. Se con “scienza” si intende il metodo riduttivo e l’approccio specialistico che lacera e spezzetta il tessuto complesso della realtà, allora la decisione sovrana di un popolo non potrà mai coincidere con una risoluzione scientifica. L’ultima parola spetterà sempre alla ragione propriamente politica. Quando esce dai suoi confini epistemologici e interviene direttamente sulla gestione politica della crisi, la posizione tecnocratica rende la scienza incapace di tener conto della molteplicità di variabili, dell’aspetto multidimensionale e complesso delle vicende umane. Ogni fenomeno umano si inserisce nella globalità della società, nella relazione fra le parti e il tutto. L’approccio ai problemi non può che essere in chiave di filosofia politica, dal momento che l’”oggetto” della scienza, tutto ciò che afferisce alla “natura”, non è qualcosa di dato che si offre spontaneamente al nostro sguardo ed è sottoposto alle nostre azioni, ma è anch’esso qualcosa di elaborato, prodotto, costruito, e quindi dipende dalla politica nel senso più ampio del termine, divenendo un “soggetto” di discussione politica.

12- Heidegger ha meditato a lungo sull’antica etimologia della parola “cosa”. Oggi noi sappiamo che in tutte le lingue europee vi è una stretta connessione tra le parole per dire “cosa” e quelle che indicano un’assemblea. Il filosofo tedesco fa una distinzione tra oggetto (Gegenstand) e la Ding, la cosa, della quale ci offre diversi esempi (il quadro di Van Gogh che rappresenta le scarpe dei contadini, un tempio greco, una brocca fatta a mano, un ponte). Mentre l’oggetto (come può essere, ad esempio, una lattina di Coca Cola prodotta industrialmente) è abbandonato alla dominazione della scienza e della tecnica, sola la “cosa” può dispiegare e radunare il suo ricco insieme di connessioni. La cosa è il concreto (dal latino concretum, un «crescere insieme», un processo, un «riunirsi») dell’abitare che istituisce i luoghi, è ciò in cui si riuniscono le quattro direzioni dell’aver cura dell’uomo. Mentre l’operare della nostra epoca è un vivere a partire da un’astrazione neutra e neutralizzante, l’abitare è un quadruplice aver cura, strutturato in quattro dimensioni che si richiamano vicendevolmente, la «riunione dei Quattro»: la terra e il cielo, i divini e i mortali. Molto schematicamente: la terra indica il possibile, l’ambito a partire dal quale emerge il mondo. La terra è la «riserva di energia» di tutto ciò che cresce, ma è anche ciò che non emerge, che resta chiuso in sé, nascosto, come la fonte di questo apparire. Terra e cielo sono due facce della stessa medaglia: se il cielo (il cielo o il mondo a seconda se viene sottolineata la componente temporale o strutturale dell’attuarsi del potenziale costituito dalla terra) è l’apparire, la terra è ciò che fonda l’apparire stesso ma che non può essere prodotto dall’uomo, ciò che esula dal “costruire”, dal “calcolo”. Le cose emergono dalla terra, ma emergono «sotto il cielo», descritto da Heidegger come il cammino del sole, il volgere delle stagioni, e dunque indica il tempo come processo per cui le cose giungono ad essere ciò che sono. Il divino si mostra a partire dalle condizioni storiche, ma sempre nel suo essere “diverso” e “altro” rispetto a ciò che è dominabile dall’uomo, da ciò che è intellegibile. Solo nella comprensione della propria finitezza l’uomo può raggiungere un’autentica esperienza del divino. La caratterizzazione dell’uomo come mortale riconduce l’essere umano al campo della possibilità e dunque della responsabilità.

13 – Secondo una celebre tesi di Heidegger, la tecnica, ma potremmo dire la tecno-scienza, è una forma del produrre, ma non come la pensavano i greci, per i quali il produrre è anche un “attingere”, un fare che è anche un saper ricevere. AL contrario, la tecnica moderna è un modo di portare alla presenza, di pro-vocare, che pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa essere estratta e accumulata, ovvero immagazzinata, ripartita. È il nostro modo di guardare la natura, come un «fondo», una «risorsa» impiegabile. Questo modo d’essere della tecnica contiene per Heidegger il «pericolo più grande», perché per la prima volta l’uomo stesso rischia di incontrare sé stesso solo come risorsa impiegabile, e di ridursi a «nuda vita», a «materiale umano impiegato secondo piani stabiliti». Si tratta, allora, di sviluppare un modo alternativo di considerare il nostro ambiente, che sia in grado di mantenere attivo il senso di un debito che il produrre ha fin dall’inizio contratto nei confronti physis (termine tradotto solitamente con “natura”, termine che però va decostruito, perché il significato di natura è associato a qualcosa di dato oggettivamente una volta per tutte ad un soggetto che ne dispone).

14 – Riflettendo sul funzionamento attuale dell’istanza Ideale nella società, colpisce la sua assenza. In termini psicoanalitici, si direbbe che l’Ideale-dell’Io sia stato subissato per un verso dall’Io-ideale e per l’altro dall’Oltre-io, per cui ci troviamo di fronte a tanti piccoli io che vogliono godere e che, al contempo, cercano “disperatamente” un padre a cui obbedire. Tutto un inconscio fatto di ego, superego, colpevolezza e godimento, da “raschiare”, per smettere di saltare dal pianeta Economia al pianeta Sicurezza e tornare ad essere finalmente terrestri.

Copertina: Foto di Khusen Rustamov da Pixabay

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Quando si affronta la tematica del cibo in una prospettiva filosofica, è quasi impossibile non partire dalle riflessioni di un importante filosofo attivo intorno alla metà dell’Ottocento, Ludwig Feuerbach. Il quale è riuscito a darci in un’unica formula l’essenza del cibo e quella dell’uomo: «L’uomo è ciò che mangia».

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4 Poesie

Bulimia

Lentamente
vorrei che lentamente
io sapessi gustare
e non sbranare sempre
per avere più tempo
e non che l’ora dopo
sovrapposta alla prima
mi sottraesse già
quei sessanta minuti
di vita.

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