Fiamme e Scintille

Verrà un giorno in cui gli uomini avranno occhi di oro rosso e voci siderali, le loro mani saranno fatte per l'amore, e la poesia del loro sesso sarà ricreata … e le loro mani saranno fatte per la bontà, prenderanno i beni più grandi con mani innocenti, perché non debbono, gli uomini non debbono, non potranno aspettare eternamente…"

Quella che prende le mosse oggi è una nuova versione completamente online di Dromo.
Non più quindi il sito della rivista ma rivista online.
Creare realtà che cerchino significato nell’esistente è possibile solo a fronte di una partecipazione che osserva, condivide, si fa parte viva di ciò che vive e quindi dopo i primi tre numeri cartacei[1] e una monografia[2] abbiamo capito che era il momento di uno strumento che potesse nella sua forma essere consono alla dinamicità del tempo che viviamo.
Uno spazio capace di modificarsi interagire con i lettori e favorirne il coinvolgimento attivo, superando le fissità di posizione di fruitori.

Abbiamo avuto sempre l’idea di una rivista come organismo vivente, interagente e la forma che da oggi si propone, ambisce a concretare l’intenzione. 

Se la veste grafica necessariamente è cambiata, con rubriche fisse a cura di un redattore e l’apertura a molte collaborazioni, lo stesso rimane lo spirito di confronto tra percorsi professionali e culturali diversi  accomunati dalla ricerca di un terzo pensiero, che si auspica possa alimentare le professioni che si prendono cura del nostro vivere nel presente, ma anche l’attenzione di ogni soggetto sensibile ai margini, alle fratture, alla sofferenza, alle contraddizioni, di un mondo che ci appare animato da una dinamicità spesso frenetica e che cambia a velocità talvolta poco sostenibili. 

Né l’elogio della lentezza, non solo legata al consumo di cibo, né il grido di dolore di un fortunato film di molti anni fa (Fermate il mondo, voglio scendere) paiono avere presa su un modello di sviluppo non a caso chiamato turbocapitalismo: in questo incedere tumultuoso delle nostre vite, non appare strano che domini il senso del precipitare, di trovarsi di fronte al precipizio e di sentire la vertigine che deve aver sentito Simon Mago: così che invece di trattenersi o retrocedere ci si lancia nel vuoto.
Dromo, in fondo, rappresenta un tentativo, certo non il solo, di non cedere alla sensazione del precipizio, non solo per l’angosciosa esperienza che questa rappresenta, ma per la rinuncia alla responsabilità che essa configura. Nel precipitare la forza di gravità è l’unica legge e si cade come corpo morto cade. Dromo, e chi collabora a Dromo, vorrebbero opporre alla sensazione di precipitare quella di poter ancora esercitare un controllo sul proprio agire, di sentirsi responsabili del proprio fare e delle cose che ci circondano.

Così, la scelta di un tema, certamente provocatorio, ma assai attuale, preso a prestito da una scritta apparsa sui muri di un quartiere neanche così periferico di Roma, “Saremo l’inferno che avete creato”, ci è parso particolarmente adatto per aprire questa nuova avventura editoriale. La prima interpretazione di quella frase è certamente generazionale: figli costretti all’inferno dalle scelte irresponsabili di genitori avidi, violenti o forse solamente pavidi, decidono di dare corpo e voce a quell’inferno, in una sorta di violenta ribellione di cui non appare chiaro chi saranno le vittime: forse i figli dei figli?
Ma qui, a cavallo tra un secolo e l’altro, quando abbiamo iniziato a non controllare le sciare di fuoco costate la vita a Prometeo?
Forse non le abbiamo viste certe fiammate quando negli anni ottanta del ‘900 indossavamo con noncuranza abiti con le spalline imbottite di memoria agonistica, ispirate alle consistenti protezioni dei giocatori di football, per preparaci a una partita dura da giocare che nessuno dichiarava aperta? Erano gli anni delle droghe pesanti, del movimento punk, del terrorismo, di una mutazione della politica i cui esiti abbiamo sotto gli occhi ora. Ma una frivolezza sorella del superfluo ammantava tutto.
Forse pochi ne seppero dire come David Foster Wallace che in Infinite jest, libro di impegnativa lettura tocca la ferita del vivere in combustione negli anni novanta del’900, intrattenuti dal nulla e tenuti dal niente.

L’altra lettura potrebbe invece apparire, secondo la vulgata vetero marxista, legata all’obsoleto (ma ne siamo sicuri?) concetto di classe: milioni di nuovi lumpen proletariat si apprestano a dare fuoco al mondo, facendo un grande falò dei megayacht e delle incredibili ville dei nuovi miliardari. In questo caso, per dirla con Peter Sloterdijk, le banche dell’ira, ovvero i luoghi dove inevitabilmente i molti costretti alla condizione servile conservano la loro ira in attesa del giorno del giudizio, avrebbero fatto molto bene i loro investimenti, consentendo a quell’ira di dare vita all’inferno.

Entrambe le letture ci paiono legittime figlie di un mondo dove non soltanto le future sorti e progressive appaiono come una favola bella che ieri ci illuse, ma in ogni narrazione del futuro le dimensioni distopiche sono di gran lunga preminenti. Intelligenze artificiali che dominano il mondo ma forse andrebbero intelligentemente governate per non fortificare le serpi della paura; centinaia di milioni di disoccupati soppiantati da robot mentre pare appannarsi un senso del lavoro che non sia funzione sopravvivenziale; degradazione e devastazione del pianeta destinato a ardere sotto l’incalzare del riscaldamento globale di fronte al quale non si distingue un dialogo tra scienza, politica e produzione. Diseguaglianze economiche di cui si riteneva non si avrebbe avuto più traccia, e perché no, una incombente guerra nucleare di cui è inutile dire e che pareva essersi allontanata dai nostri timori solo un paio di decenni orsono.

Sono queste narrazioni dominanti, forse molto più realistiche che non le predizioni dei millenaristi e degli apocalittici di ogni tempo e ogni latitudine, che sembrano toglierci ogni ottimismo del cuore. Rimane solo il pessimismo della ragione. E tuttavia è lo stesso pessimismo che troviamo nella Repubblica di Platone, in cui l’homunculus che abita la psiche di ogni umano è sopraffatto dal leone e dal mostro policefalo: nonostante questo sguardo impietoso sulla tragica natura umana, chissà come e chissà dove, Platone crede nella forza di Eros, il dio cui soccombono anche gli dei.
Ma l’Eros platonico è figlio di Penia, ovvero della mancanza e Poros, ovvero dell’espediente. In questo senso l’Eros platonico è un Dio dell’insoddisfazione

Sandro Gindro, psicanalista troppo prematuramente scomparso, rifletteva che in questa rappresentazione di Eros non c’è, però, spazio per sognare, non per raggiungere, ma almeno, come dicevo, sognare un modo meno distopico: Eros è troppo simile al piccolo e grande capitalista, condensato di ambizione e assenza di scrupoli: l’Eros gindriano non è generato da Penia, ma al contrario, dalla soddisfazione del piacere. Non è cambio di poco conto: un bambino amato sarà capace di amare, un bambino cui non è stato dato amore, cresciuto cioè sotto l’egida di Penia, sarà capace di desiderare anche avidamente o di scambiare impulsi per desideri a cui dare corso senza spazi di elaborazione, ma forse gli risulterà più difficile amare, anche teneramente o disperatamente nella certezza che quella scintilla di fuoco può essere luce su un cammino e non incendio.

[1] Dromo, rivista per un terzo pensiero, nr.1, dicembre 2020, nr. 2luglio 2021, nr.3, luglio 2022, Roma, round robin ed.

[2] Bracalenti R., De Santis M., “Con-vivere. Luoghi e forme della vita comunitaria”, Roma 2022, round robin ed.

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