Dare concretezza alla vita indipendente:
azione pubblica e luoghi dell'abitare

Il fotografo Thierry Diana sostiene che “è quando dobbiamo scegliere, che ci accorgiamo quali oggetti hanno davvero valore”. Un’osservazione estremamente dirompente a maggior ragione se considerata nel contesto progettuale dalla quale è emersa, ossia da un lavoro sul campo, interpellando gli ospiti di una struttura residenziale svizzera nei pressi di Ginevra in merito alla domanda: quale oggetto vorreste avere con voi nell’ultimo periodo della vostra vita?

Luigi Jorio ha portato in evidenza un lavoro di Diana pubblicando un articolo sul sito swissinfo.ch nel 2021 nel quale viene proposto anche un pensiero di Tania Zittoun, professoressa all’Istituto di psicologia ed educazione dell’Università di Neuchâtel, che ci invita alla seguente riflessione:
“L’ingresso in una casa di riposo è un momento di rottura nel corso della vita e gli oggetti possono fungere da ponte con il passato. Permettono alla persona di mantenere un senso di continuità e di conservare il legame con gli altri. Hanno il potere di evocare ricordi, cose che non ci sono più”.
E’ un pensiero che possiamo estendere a diverse situazioni della vita, non solo riferibili alle persone anziane. Pensiamo ai migranti e ai rifugiati, alle persone private di libertà. “Mi chiedo quali possano essere gli oggetti che hanno importanza in un luogo che non si può lasciare” si chiede sempre Diana.

E su questo aspetto ognuno di noi può interrogarsi prima che la vita lo metta di fronte alla ineluttabilità della scelta.

Allargando lo sguardo, lasciandoci alle spalle la relazione fra prospettiva del sé e quella degli oggetti di cui ci circondiamo nei diversi momenti della nostra vita, passiamo alla relazione con la nostra dimora, la nostra casa, l’ambiente nel quale collochiamo gli oggetti e forniamo un palcoscenico alle nostre relazioni, ai nostri ricordi e ai nostri sogni.
A fronte di una popolazione che invecchia progressivamente e percentualmente, quando pensiamo a quali servizi e quali ambienti di vita devono essere destinati alle persone anziane, ci troviamo di fronte ad un ventaglio di esigenze imponenti che non riusciamo a governare adeguatamente e tempestivamente.
Il valore numerico che esprime la forbice temporale che ricomprende le persone anziane, dai 65 anni fino ai 100 e qualcosa di più, non ci fa comprendere, nell’immediato, quante variazioni sul tema della terza età esistono e sussistono. Tanto che non si parla solo di terza età ma anche di quarta età. In inglese troviamo anche le declinazioni “senior, silver, over” per cercare di essere ancora più’ inclusivi.
Età così differenti tra loro, esigenze e capacità individuali a volte articolate e non sovrapponibili che quando vengono interpellati i servizi alla persona questi risultano impreparati a rispondere. I servizi territoriali, sociali e sanitari, gli apparati pubblici istituzionali in generale, faticano ad adeguarsi e modellarsi per rispondere alle richieste dei cittadini e delle loro famiglie.

Nonostante nella nostra società si annoveri una delle popolazioni più anziane del pianeta, è forte la preclusione alla dimensione di libertà di scelta e di progetto qualora siano rivendicate dall’anziano (sulle scelte di vita, di residenza, di affettività, di sessualità, di solitudine/isolamento o di divertimento, di gestione del patrimonio, di affrontare la malattia, l’infermità e il fine vita).

L’intervento professionale sociale appare quindi fondamentale per favorire la conoscenza reciproca e l’integrazione. Penso all’Assistente Sociale come ad un facilitatore per coloro che tendono a costruire una nuova modalità di vicinato e sostegno reciproco, per la promozione di un vicinato elettivo e di comunità creative che altro non sono se non dei prototipi funzionali di modalità del vivere più sostenibile. Volendo coniare uno slogan, penso all’Assistente Sociale come ad un “costruttore di senso”.

Appare sempre più necessario ricorrere a modalità di acquisizione del consenso trasparenti, con incontri di informazione, approfondimento, discussione e gestione di eventuali conflitti e la raccolta di proposte e posizioni da parte dei partecipanti. Il passaggio successivo è creare strutture dedicate alla rigenerazione urbana coinvolgendo anche gli abitanti in quanto “cittadini committenti”, con competenze decisionali estese dalla progettazione all’attuazione degli interventi. Secondo un rapporto del McGraw Hill Financial Global Institute è necessario pensare in modo innovativo a come creare “città a misura di anziano”.

Mina Akhavan del Politecnico di Milano (Dipartimento di Architettura e Studi Urbani) ci ricorda che le città del futuro saranno popolate da anziani e, di conseguenza, bisognerà adeguare le attuali strutture urbane in tempi brevi. “La pianificazione urbana, sostiene Akhavan, ha un ruolo chiave nel garantire uno sviluppo multigenerazionale delle città, in quanto influisce su diverse dimensioni della vita cittadina attraverso una vasta gamma di politiche e interventi. La rigenerazione può essere considerata una politica strategica urbana, efficace nell’integrare le problematiche ambientali con gli standard sociali ed economici, quindi in grado di creare una città più attraente, coesa ed economicamente dinamica. Un approccio multigenerazionale concorre a garantire una migliore qualità della vita in ambito urbano.

Il dibattito contemporaneo sulla pianificazione multigenerazionale delle città tende ad affrontare la questione con riferimento quasi esclusivo all’accessibilità dello spazio fisico, non tenendo conto che per ottenere una buona qualità di vita, non è sufficiente avere una buona accessibilità ad infrastrutture e servizi, bensì risulta di fondamentale importanza la valorizzazione dell’ambiente sociale. Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione evidenzia la necessità di affrontare numerose e complesse sfide, compresa la mobilità, che include una serie di problemi correlati, che hanno significative conseguenze fisiche, mentali e sociali sul benessere di questo gruppo vulnerabile della popolazione. L’urbanizzazione e il crescente invecchiamento della popolazione porteranno a plasmare le metropoli di tutto il mondo sui bisogni della fascia più rappresentativa della popolazione. L’accessibilità (fisica e sociale) e l’inclusione sono questioni prioritarie per la città: è di fondamentale importanza che le amministrazioni introducano questi temi nelle proprie politiche e azioni di attuazione a tutti i livelli. Una città è accessibile quando permette al maggior numero di persone con diverse abilità di spostarsi nel modo più indipendente e sicuro possibile tra spazi e attrezzature ad uso collettivo, tra luoghi di residenza e luoghi in cui si svolgono le attività quotidiane. Risulta, dunque, necessario progettare spazi urbani e attrezzature utilizzabili, confortevoli, sicure e piacevoli (a vista, udito, tatto, olfatto); spazi non specificamente dedicati alle persone con disabilità, ma nei quali tutti possono sentirsi inclusi.”

Aitor-Hernandez-Morales, sul sito Politico Europe il 28 aprile 2022 nel suo l’articolo “No city for old folks” evidenzia che una delle maggiori sfide per le città dell’UE è l’accoglienza degli anziani che non vogliono trascorrere i loro anni d’oro nelle case di riposo ma corrono il rischio di isolarsi.

L’autore riprende alcune valutazioni apparse sulla rivista Fortune Italia:
“Gli anziani ora non vogliono essere come i loro genitori: sono determinati a rimanere autosufficienti. Ciò non significa che vogliano vivere da soli: c’è molto interesse per la vita in comune. C’è un crescente riconoscimento del fatto che gli anziani hanno bisogno di sedersi al tavolo decisionale in quanto le decisioni non possono essere prese solo dagli esperti”.

Sempre sulla rivista Fortune si sostiene che la costruzione di città a misura di anziano non solo porterà benefici agli anziani ma, nel lungo termine, porterà benefici anche alle generazioni più giovani che invecchiano e che per raggiungere questo obiettivo richiede anche investimenti che vadano oltre il sollievo immediato per la popolazione anziana e affrontino le disuguaglianze sistemiche più profonde che influiscono sul modo in cui le persone invecchiano.

Nell’articolo apparso su Politico Europe si fa riferimento anche all’esperienza di Udine dove gli over 65 anni costituiscono il 27% della popolazione. Gli amministratori locali affermano che il loro obiettivo è consentire alle persone anziane di vivere in modo indipendente senza sentirsi sole. “La maggior parte dei nostri residenti più anziani sono donne che vivono da sole e siamo sensibili al fatto che la solitudine può contribuire a problemi di salute come la demenza”, ha affermato Stefania Pascut, che coordina il progetto Città Sane. Sebbene la generazione più anziana sia uno dei blocchi elettorali più attivi dell’UE, le sue esigenze specifiche vengono spesso trascurate nel processo decisionale. Un numero crescente di città dell’UE stanno ora creando comitati consultivi per gli anziani per dare voce ai cittadini più anziani nella legislazione locale e nella pianificazione urbana. A Udine si lavora anche per incoraggiare le generazioni a interagire:
“Poiché viviamo a lungo, è la prima volta nella storia che così tante generazioni condividono le nostre città, ma paradossalmente i diversi gruppi di età non tendono a mescolarsi”.

Elena Ostenel, ricercatrice in Tecnica e Pianificazione Urbanistica all’Università Iuav di Venezia, evidenzia che, per rigenerazione urbana, si deve intendere un complesso processo sociale capace di produrre effetti socio-spaziali contestuali e duraturi nel tempo:
“viene prodotta rigenerazione urbana dove sono moltiplicati i diritti di uso di uno spazio per pubblici differenti, potenziandone le accessibilità per diversi pubblici; si produce rigenerazione urbana se lo spazio (pubblico e non) diventa risorsa disponibile, capace di ancorare processi di empowerment e attivazione sociale”.

Ne consegue che, affinché si possa parlare di rigenerazione urbana, è necessario che si produca apprendimento sia nelle istituzioni sia nei molteplici attori sociali che vi hanno preso parte, a garanzia di sostenibilità e durabilità.

Si dice che è meglio un conoscente vicino che un amico lontano. Questo pensiero trova ancora più senso se ci approcciamo alla rigenerazione come informazione, coinvolgimento, partecipazione e cambiamento. E se vi affianchiamo il concetto di trasformazione degli spazi, delle strutture e, necessariamente, del modo di vivere.
L’obiettivo di fondo è favorire una partecipazione di individui, di persone aggregate, di cittadini che sia in grado di mettere in cantiere una “cooperativa di Comunità” e di intercettare risposte concrete ai bisogni e ai desideri delle persone stesse.

In fin dei conti si vive bene, nella quotidianità e nello scorrere dei giorni, quando ognuno di noi percepisce una fluidità tra l’ambiente soggettivo (il nostro vissuto, le nostre emozioni, i nostri desideri), che potremmo definire una infrastruttura psichica e l’ambiente di vita, dove viviamo, la nostra casa (considerando gli spazi interni, ma anche quelli esterni o condivisi e la dimensione digitale) cosa che possiamo connotare come infrastruttura sociale e, per ultimo con il contesto umano circostante (le persone che ci circondano, l’ambiente, i costrutti sociali e le reti di connessione), ossia la dimensione dell’abitare, in definitiva una infrastruttura di comunità.

Al riguardo Antonio Tosi (Case, quartieri, abitanti, politiche. Clup 2004) chiarisce che, nell’attuale fase storica, assistiamo alla trasformazione dell’idea di casa come bene a quella dell’abitare come concetto complesso in cui la residenza è supportata da servizi integrativi connotati da un forte significato sociale. Per questo serve integrazione fra i sistemi di welfare, quello sociale e quello abitativo in primis.

A maggior ragione se trattiamo delle esigenze delle persone anziane, è inderogabile innovare l’edilizia sociale e renderla davvero integrata con altre sfere del welfare, quella delle politiche sociali innanzitutto (Matteo Moscatelli, Welfare e Casa, Vita e pensiero 2017). Le nuove generazioni di anziani vogliono appropriarsi del diritto di modellare l’ambiente di vita affinché sia possibile venire incontro ad esigenze di una quotidianità modulare e diversificata che possa affiancarsi all’individuo al venir meno delle autonomie. Lo stesso Moscatelli invita a favorire la capacitazione, il “civil engagement”, ovvero la propensione a che siano i residenti ad essere parte attiva del processo di costruzione di un modello di coabitazione solidale e non destinatari passivi di servizi erogati da terzi.

Si tratta di aderire ad una prospettiva da taluni definita “salutogenica”, ovvero ad una “gestione sociale della salute” che presidia la vita della comunità e accompagna le fasce della popolazione con malattia cronica in un “continuum of care” ad opera della comunità degli abitanti.

“Occorre ripensare la flessibilità spaziale e funzionale, incrementare la permeabilità degli spazi comuni, ridiscutere le istanze della privacy individuale e del rapporto tra pubblico e privato, coinvolgere gli abitanti nelle dinamiche sociali, integrare intervento pubblico e operatori privati, rigenerare ambiti degradati, dismessi o sottoutilizzati a tutela della risorsa suolo.” (Adolfo F.L. Baratta – Una nuova visione dell’abitare e degli spazi dell’abitare nel Pnrr, Techne 2022)

Le nuove generazioni di persone anziane si connotano per una sempre maggiore consapevolezza della propria vita. In generale la persona che oggi arriva ai 65 anni è un soggetto inserito in una rete di relazioni, progetti e attività che gli consentono di sentirsi ancora protagonista della sua quotidianità. E che, per la maggior parte, vuole liberarsi sempre di più dalle incombenze quotidiane, dedicandosi maggiormente ai propri interessi.

Queste esigenze permangono anche con il sopraggiungere ed il manifestarsi di condizioni di fragilità o di perdita parziale dell’autonomia. Dobbiamo creare le condizioni affinché una vita indipendente, consapevole e soddisfacente sia possibile al mutare delle autonomie. Il nostro Paese soffre della mancanza di pianificazione di luoghi fisici capaci di rispondere ad un’esigenza di comfort, tranquillità e sicurezza, avvalendosi anche dell’applicazione di tecnologie all’avanguardia per monitorare e assistere i residenti, compreso ambienti che prevedano ì presenza di personale medico e assistenziale a richiesta. La mancanza di pianificazioni sistemiche e di strutturazione di servizi sui quali misurare l’efficacia di risposta crea di fatto le condizioni per accelerare la perdita di autonomia, consolidare le situazioni di fragilità e di marginalità sociale, rendere impercorribile una progettualità domiciliare sul medio-lungo periodo, favorendo il ricorso alla istituzionalizzazione come soluzione univoca per tutte quelle situazioni che non riescono ad incasellarsi nelle risposte standardizzate dei servizi.

E’ bene essere consapevoli che è forte la richiesta che arriva ai servizi sociali territoriali di poter accedere a soluzioni quali piccoli complessi condominiali che prevedano ad esempio ampi spazi comuni, atti a promuovere la socializzazione tra gli anziani, aree di soggiorno in condivisione e sale polivalenti, un ristorante, e perché no, una palestra o una lavanderia.

Luoghi che devono connotarsi come “risposte di prossimità”, ossia diffusi, nei contesti urbani così come nelle frazioni, per non allontanare le persone dai contesti noti o dalle persone conosciute. E nel caso si parli di territori urbani che siano situati in una zona residenziale della città, ben collegato con i mezzi di trasporto, prossimi a negozi e servizi.

Le singole azioni locali o i progetti, alcuni altamente degni di attenzione, ma pur sempre ricompresi in iniziative spontanee o di un gruppo di persone accomunate da afflati ideali (ed in questo senso vanno obbligatoriamente menzionati e valorizzati i cohousing – propriamente intesi) non dimostrano che una strada di attenta lettura dell’esistente sia stata effettuata e che sussistano le condizioni per una integrazione delle politiche della casa nell’ambito delle politiche socio-sanitarie.

Sui luoghi di vita (e di fine vita), di cura, di aggregazione, di condivisione e di relazione abbiamo davanti imponenti praterie da percorrere. Può essere disarmante per taluni. Può essere tuttavia una grande opportunità per realizzare progetti e costruire sinergie fra professionisti, cittadini e mondo dell’imprenditoria.

Lidia Ravera nel suo libro “Age pride. Per liberarci sui pregiudizi dell’età” evidenzia che alle persone non si riconosce ancora il diritto di invecchiare. D’altra parte, chi vorrebbe accettare serenamente di essere (sbrigativamente) definito “anziano” se il contesto sociale affianca a questo termine una sorte di implicita autorizzazione alla declassificazione, alla marginalizzazione in quanto elementi non utili (produttivi) o non più presentabili?

Impegnarsi a riportare in auge il servizio sociale di comunità (che Paolo Folgheraiter brevemente declina come “una prospettiva operativa che privilegia il lavoro con gruppi/associazioni di cittadini rispetto al lavoro sui singoli casi bisognosi di terapie o aiuto individualizzati”) dovrebbe essere un obiettivo della comunità professionale degli Assistenti Sociali. Occorre rivendicare l’utilità e l’indifferibilità del passaggio dalla risposta individuale alla risposta collettiva.

Il punto di partenza che conviene assumere è – come ricorda Massimo Bricocoli, Direttore del Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di Milano – quello di “de-standardizzare” i modelli di welfare, aprendo ad una interpretazione dei servizi sociali non solo come “presa in carico” secondo una direzione di assistenza sociale, ma anche come riconoscimento di domanda di servizi da parte di persone che non hanno difficoltà economiche, ma esprimono bisogni di cui le politiche pubbliche devono occuparsi.

Nell’ultimo decennio (con una tendenza progressiva crescente) è rilevante la domanda di servizi sociali da parte di persone che non hanno titolo all’assistenza sociale (per come sono strutturati i servizi e per come le amministrazioni locali ritengono che sia plausibile attendersi).

Questi cittadini e le loro famiglie esprimono bisogni rispetto ai quali i professionisti, in particolare ed in primis gli Assistenti Sociali, non hanno possibilità di rispondere in quanto manca, a monte, la visione strategica (a livello nazionale e, a seguire, a livello della programmazione regionale ed infine in quella locale) di permettere ai servizi territoriali di definire progettualità di comunità quale azione primaria di attività e di programmazione pluriennale. Manca pertanto la predisposizione e l’orientamento all’obiettivo, prima ancora degli strumenti, in attesa che le amministrazioni pubbliche arrivino a decidere come collocarsi in relazione alle istanze di vita indipendente affinché siano disponibili e fruibili luoghi deputati all’invecchiamento “consapevole”.

L’immobilismo politico e legislativo ha determinato che ognuno si muovesse al meglio seguendo le proprie visioni e i propri interessi. Senza riforme sistemiche ci si ritrova oggi a dover fronteggiare molteplici schieramenti che evidenziano contrapposizioni economiche e anche ideologiche, per esempio come quelle che scaturiscono tra i paladini della permanenza al proprio domicilio (quasi) ad ogni costo ed in qualsiasi condizione (esaltando il ruolo della famiglia quale possibile risolutore magico di ogni bisogno, magari elargendo qualche ora di prestazione in più per servizi domiciliari rimpolpando di qualche voucher il pacchetto base assegnato quasi indistintamente a tutti), i sostenitori delle attività di supporto domiciliare per il tramite di personale di assistenza (con tutti i connessi contrattuali e le emersioni del lavoro irregolare) attorno alle quale prosperano anche interessi commerciali non trascurabili e i portatori di interesse dei soggetti proprietari di strutture residenziali che hanno creato negli anni gruppi societari talvolta con ramificazioni nazionali.

Di cosa abbiamo veramente necessità come sistema Paese per innescare un meccanismo di cambiamento virtuoso ed efficace? La risposta è una sola.

Di una riforma attenta e articolata della terza età all’interno della quale sia dato rilievo anche ad una specifica integrazione fra il sistema del welfare socio-sanitario ed il welfare abitativo affinché siano prese in considerazione elementi di gestione sociale della salute e del benessere, una definizione di servizi di prossimità (flessibili e la cui efficacia trasformativa sia verificabile), una adeguata collocazione del ruolo della famiglia e delle relazioni sociali, la valorizzazione delle comunità locali, le connessioni fra sistemi sociali e socio-assistenziali con quelli sanitari, la rigenerazione urbana, la pianificazione architettonica e ed urbanistica, la funzionalità dei trasporti pubblici.

Risulta evidente che per perseguire obiettivi di questa portata, estensione e rilevanza occorre che si avvii un’azione politica di carattere nazionale da cui derivi la necessaria legislazione ove siano previsti gli attori in gioco (compreso i professionisti e le loro attribuzioni funzionali) e i servizi da implementare o da adattare agli obiettivi.

Molti sono stati gli anni di attesa di una legge di riordino e di riforma destinata alla terza età in questo Paese. Con la Legge 33/2023 il Parlamento ha voluto dare corso ad un progetto di attenzione alle istanze e ai bisogni delle persone anziane in Italia.
E alla fine di gennaio 2024 è stato promulgato il Decreto attuativo da cui dovrebbe dipanarsi un insieme variegato e articolato di iniziative a valenza nazionale.

Riconosco che affrontare la tematica della popolazione anziana è un’impresa imponente e certamente non di facile approccio e mette duramente alla prova qualunque Governo e azione parlamentare.

Detto questo non posso esimermi dall’evidenziare che molteplici sono gli elementi di forte criticità che emergono dalla legge e dal successivo decreto.
Prima fra tutte la riforma non riesce a cogliere la necessità di chiarire con opportune definizioni i diversi aspetti della terza età, apponendo distinzioni fra invecchiamento attivo, fragilità, perdita dell’autonomia, condizione di non autosufficienza ed esigenze di fine vita. Una mancanza che si riverbera di conseguenza nei testi approvati e che rendono la riforma incapace di fornire risposte sistematiche, sinergiche e collegate.
Ne consegue un insieme di propositi e di obiettivi disarticolati e disaggregati che non definiscono nemmeno bene i beneficiari degli interventi. E la lettura porta in evidenza affiancamenti poco appropriati fra anziani non autosufficienti con soggetti pienamente attivi.

La strada per la realizzazione compiuta della riforma delineata nella Legge 33/2023 è però ancora lunga e dovremmo sostenere implementazioni e ricalibrazioni di prospettiva.

In relazione ai temi trattati in questo intervento auspico che siano affrontati quantomeno questi tre elementi:

  • strutturare i servizi territoriali per favorire l’adattamento domestico e urbano, integrando differenti competenze professionali per pensare/ripensare/creare luoghi di vita e luoghi di cura in un’ottica funzionale e di prossimità (come ricordato in altre parti di questo intervento);
  • realizzare diffusi progetti di vita comunitaria (ad esempio: case famiglia, comunità alloggio, cohousing e progetti di convivenza intergenerazionale, appartamenti protetti, condomini solidali) accessibili al sistema di servizi a supporto delle autonomie;
  • favorire realmente la permanenza al proprio domicilio o contesto di vita organizzando un sistema di assistenza domiciliare socio-assistenziale-sanitario integrato flessibile e a intensità variabile, in grado di affrontare bisogni complessi e non settorializzati.

Come per qualunque riforma è auspicabile che via sia un forte coinvolgimento dei professionisti che quotidianamente lavorano con i cittadini e nei servizi territoriali.
Come Assistenti Sociali siamo pronti a svolgere la nostra parte e a mettere a disposizione esperienze, valutazioni e progetti.

Addivenire ad una alleanza fra professionisti dell’area sociale, sanitaria, urbanistica e ambientale potrebbe rappresentare un elemento di avvio di un processo ideale e strategico (dal quale persino il mondo politico e decisionale non potrebbe sottrarsi) ossia abituare le persone a costruire il proprio ambiente e orientare alla traslazione dal senso del possesso personale a quello della comunità locale.

A questo proposito riporto quanto è previsto nel documento strategico della professione degli Assistenti Sociali, il Codice Deontologico, che nella sua più recente versione, quella del 2020, prevede il richiamo ad essere parte costituente delle sfide progettuali della società che si trasforma tanto che nell’art.13 si riporta esplicitamente:
«l’Assistente Sociale concorre alla produzione di modelli di sviluppo rispettosi dell’ambiente, della sostenibilità ecologica e della sopravvivenza sociale, consapevole delle difficoltà nel rap-porto fra l’essere umano e l’ambiente».

Possiamo essere parte di un buon futuro, come cittadini prima ancora che come professionisti.

Dott. Claudio Pedrelli: consigliere CNOAS - Ordine Assistenti Sociali Consiglio Nazionale

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