“Sapori di casa”: dinamiche identitarie nella diaspora induista, fra cibo, sacro e ritualità

Il cibo rappresenta una componente centrale dell’identità personale e culturale di qualsiasi gruppo umano[1], un ponte che collega gli individui alle loro radici ancestrali e un mezzo per preservare le tradizioni locali, regionali e nazionali. Nutrirsi non è una mera pratica biologica di sopravvivenza, ma comporta scelte precise che rimandano a tradizioni, culture e, oggi più che mai, anche a personali valori identitari, etici e morali. Attorno alle pratiche alimentari si costruiscono quotidianamente nuove narrazioni e identità attraverso cui è possibile cogliere i processi di transculturazione, raccontare negoziazioni, trasformazioni individuali e collettive. La storia stessa delle tradizioni culinarie procede per cambiamenti, ibridazioni, sostituzioni, nuovi sapori e pietanze dimenticate[2], che vanno a determinare continuità ma anche cambiamenti significativi nelle differenti prassi alimentari[3].

Se per chiunque i “sapori di casa” rimandano a un costrutto identitario, a una sfera semantica di appartenenza, di ricordi e vissuto personale, tali significati diventano ancora più preminenti nel contesto delle diaspore[4] e delle migrazioni internazionali, dove il cibo diviene strumento invisibile, ma potente, per mantenere il senso di continuità e il legame con la propria storia e la propria patria. In questo senso il cibo assume significati polisemici: non solo come elemento di identificazione per coloro che sono partiti, ma anche come strumento di continuità tra le generazioni. Diviene inoltre dispositivo mnemonico capace di rinsaldare il legame con le proprie origini e di trasmettere tale legame alle seconde generazioni, affinché queste possano vivere le suggestioni degli odori e dei sapori della tradizione che spesso conoscono soltanto attraverso i racconti dei loro cari.

Nell’Italia contemporanea, caratterizzata da un crescente pluralismo culturale e religioso, tra tutte le comunità migranti presenti sul territorio, la diaspora induista spicca per via del profondo e pervasivo legame che ha con il cibo. Questa comunità – composta principalmente da individui di origine indiana, bengalese, srilankese e mauriziana – incarna, attraverso le dinamiche del consumo alimentare, una serie di valori e significati fondamentali per la trasmissione della memoria delle proprie usanze regionali e locali. Inoltre, il cibo diviene un veicolo concreto per tramandare pratiche religiose e spirituali, che attraverso di esso trovano espressione e portano con sé un profondo valore sacrale.

Nell’induismo, difatti, il cibo assume una funzione centrale, tanto da poter essere definito “la religione della cucina”. Ogni rituale, sia esso domestico o collettivo, ogni cerimonia religiosa, festività o pellegrinaggio, risulta incompleto senza un’offerta alimentare[5]. Per ingraziarsi il favore della divinità e ricevere il suo sguardo benedicente[6], è essenziale omaggiarne la mūrti (statua raffigurante l’effige divina) con offerte di fuoco, incenso, acqua, fiori e, naturalmente, cibo. Queste offerte alimentari possono includere frutta, riso, cereali, dolciumi e pietanze specifiche a seconda dell’occasione. A conclusione del rituale, che sia una festa o una celebrazione religiosa il cibo, dopo aver svolto la sua funzione di offerta sacra, viene distribuito ai presenti e a chiunque si trovi a passare per il tempio o a prendere parte alla cerimonia. Da questa tradizione nasce la pratica materiale e spirituale dell’anna-daan, ovvero la donazione o la condivisione di cibo[7] senza aspettarsi nulla in cambio[8]. Nei templi, verrà sempre offerto da mangiare a chi ne farà richiesta. Tale pratica si basa sulla convinzione religiosa che nutrire un’altra persona sia un modo di servire Dio stesso, un principio presente nelle scritture sacre come la Bhagavad Gita e le Upanishad, che in questo senso sottolineano l’importanza di riconoscere il divino in ogni essere.

L’anna-daan però non ha solo valore simbolico di per sé, ma agisce anche come “livella sociale”, soprattutto nei contesti dove le disparità economiche sono marcate. In questo modo i templi e le istituzioni religiose diventano luoghi dove le barriere di casta, classe e status economico possono essere temporaneamente sospese, così che il cibo viene ad assumere una funzione di legame comunitario, sociale e religioso, promuovendo un senso di unità e uguaglianza. Non solo mero atto di fede, dunque, ma espressione concreta di solidarietà e cura reciproca, che trasforma la pratica religiosa in azione sociale. Condividere il pasto diviene pertanto una manifestazione tangibile di spiritualità incarnata, dove il nutrimento del corpo e quello dell’anima sono inscindibili e ugualmente importanti. Attraverso anna-daan, l’induismo esemplifica la sua capacità di integrare aspetti spirituali, sociali e materiali della vita, offrendo una risposta complessa e integrata ai bisogni umani, che va oltre il semplice atto del mangiare condiviso.

Per restituire un esempio concreto fra tutti gli eventi religiosi, festivi e comunitari in cui nell’induismo il cibo risulta protagonista, ricordiamo uno dei primi “sacramenti”[9] che ogni fedele induista è tenuto a compiere: l’annaprāśana, ovvero il primo cibo cotto consumato nella vita. Tale celebrazione si svolge generalmente tra il quinto e l’ottavo mese di vita della bambina o del bambino, a seconda del genere e della disponibilità del celebrante a officiare il rituale. Durante la cerimonia, il bambino viene accuratamente lavato, vestito con abiti cerimoniali e posto in grembo ai genitori, mentre si rivolgono preghiere alle divinità affinché lo benedicano con buone capacità digestive, eloquenza e sviluppo mentale. La parte centrale del rituale prevede la somministrazione di riso sotto forma di kheer, un budino dolce fatto con latte, riso e zucchero, particolarmente diffuso nelle cerimonie religiose induiste. I genitori, insieme ai familiari e agli amici partecipano attivamente alla cerimonia, recitando mantra e offrendo doni per invocare la protezione e la prosperità divina sul nuovo membro della famiglia.

Questo peculiare rito di passaggio simboleggia l’introduzione del bambino alla comunità e al cibo solido, segnando una tappa fondamentale nel suo sviluppo, ancorché tutta la comunità diviene testimone che il nuovo membro ha compiuto l’atto sacro del nutrirsi. Difatti, se non c’è nulla di più sacro del cibo come offerta agli dei, come può il primo cibo consumato nella vita non avere una rilevanza e una sacralità assoluta?

 
Offerte devozionali di cibo per la Durga Puja, Torpignattara - Roma 2023

Il primo “pasto solido”, dunque, non solo rafforza i legami familiari, ma rappresenta anche un’importante occasione di condivisione e di trasmissione culturale, dove le tradizioni e i valori vengono tramandati di generazione in generazione.

In questo contesto, le stesse pratiche legate alla preparazione e al consumo del cibo diventano un terreno di confronto, rappresentando una metafora utile per comprendere le molteplici traiettorie generate dall’esperienza migratoria[10]. Il rapporto fisico con il cibo, come il gesto di mangiare con le mani, diviene un segno distintivo che separa le diverse identità culturali. Laddove i migranti cercano di riprodurre fedelmente le ricette tradizionali del loro paese per mantenere vivi i “sapori di casa”, non è raro, invece, che i loro figli – nati e cresciuti in Italia – preferiscano usare le posate e a volte rifiutino i sapori speziati e agrodolci della cucina dei loro avi, optando per gusti più mediterranei, come una semplice pasta al pomodoro.

Allo stesso tempo in un processo di continua negoziazione e assimilazioni di consuetudini e pratiche alimentari i migranti vengono a scoprire e ad assimilare tradizioni culinarie italiane. Così, ad esempio, fra la comunità induista di Novellara – in provincia di Reggio Emilia – l’analogia fra la ricetta della piadina e quella del chapati[11], produce un gemellaggio fatto di affinità culinarie che porta anche i membri più anziani ad affermare: «noi qui ci troviamo bene, ci sentiamo come a casa, mangiamo anche lo stesso pane»[12].

Lo “stesso pane” che non è più solo semplice nutrimento, ma ponte fra culture e strumento di incontro per riscoprire valori e significati comuni nel semplice gesto del mangiare. Tali trasformazioni e negoziazioni culinarie vengono così a riflettere le trasformazioni culturali e collettive di una comunità, come quella della diaspora induista che, attraverso l’atto del mangiare, riscopre nuove modalità di costruzione identitaria a livello individuale, generazionale e collettivo, sviluppando rinnovate dinamiche di convivenza, scambio reciproco, socialità e accoglienza.

Il cibo diviene dunque luogo di negoziazione, dove gli individui affrontano le tensioni tra il loro patrimonio e la cultura dominante, affermando e riconfigurando la loro identità in una “entità più ricca” [13] che conserva ancora tracce della loro casa precedente. Se la condivisione del pasto in contesti comunitari e rituali viene a rafforzare i legami interpersonali, creando un senso di solidarietà e mutualità; nei momenti di celebrazione o di crisi, il cibo diventa un mezzo di supporto e connessione, confermando il suo ruolo centrale per la collettività. Questo processo di condivisione e partecipazione alimentare viene così a tradursi in un importante strumento di inclusione e coesione sociale, dove ogni pasto diventa un atto di comunione e appartenenza creando, attraverso la tavola, occasioni di incontro.

In conclusione ritorna sempre attuale la massima di Feuerbach “siamo ciò che mangiamo” [14] che, attraverso diversi livelli interpretativi, ben si inserisce in questo orizzonte di senso ricordandoci che l’uomo non si nutre solo a livello biologico, ma anche a livello simbolico e sociale. È nutrendoci degli stessi cibi e delle stesse pietanze che ci rendiamo “simili”, e definiamo la nostra identità comune come commensali e membri di una stessa comunità. Ed è assimilando “cibo sacro” che diveniamo compartecipi e consustanziali del divino celato nel cibo stesso, avvicinandoci attraverso l’atto del nutrirci all’essenza della divinità, che esprime la sua benevolenza nei nostri confronti donandoci il cibo, che a nostra volta dobbiamo ridonare e condividere per preservare l’equilibrio della società e del mondo in cui viviamo.

 

NOTE

[1] Montanari M., Food is Culture, Columbia University Press, 2006.

[2] Ray K., The Migrants Table: Meals and Memories, In Meals and Memories in Bengali-American Households, Temple University Press, Philadelphia 2004.

[3] Della Puppa F. e Segalla S., “Come a casa mia”: pratiche alimentari, intersezioni identitarie e attraversamenti urbani nell’esperienza dell’immigrazione, in Quaderni di Sociologia [Online], 76 | 2018, cit. p.122, URL: http://journals.openedition.org/qds/1929 (06/2024).

[4] La definizione che qui daremo di diaspora è la relazione tra gruppi etnico-nazionali globalmente dispersi ma collettivamente auto-identificati con i loro paesi di origine. Per un approfondimento sull’utilizzo del termine “diaspora” si rimanda a: Vertovec S., Three Meanings of ‘Diaspora,’ Exemplified among South Asian Religions, in “Diaspora A Journal of Transnational Studies”, 6 (3) 1997; e a Knott K., McLoughlin S., Diasporas. Concepts, Intersections, Identities, Zed Books, 2010.

[5] Tale offerta, una volta santificata dalla divinità, prende il nome di prasāda.

[6] In sanscrito darshana.

[7] Anna è la parola sanscrita che indica il “cibo”.

[8] Raju K.V., Manasi S., Shruti M. S., Latha N., Anna-daan, food charity in Hinduism. An exploration, cit.

[9] In sanscrito saṃskāra.

[10] Della Puppa F. e Segalla S., “Come a casa mia”: pratiche alimentari, intersezioni identitarie e attraversamenti urbani nell’esperienza dell’immigrazione, cit. 

[11] Il chapati è un pane tipico dell’India (in particolare del Punjab), fatto con farina e acqua dalla caratteristica forma piatta e tonda, simile proprio ad una piadina.

[12] Intervista a cura di C.Tommasini a una donna della comunità induista di Novellara afferente al tempio “Jai Vaishno Mata Mandir” (maggio 2024).

[13] Della Puppa F. e Segalla S., “Come a casa mia”: pratiche alimentari, intersezioni identitarie e attraversamenti urbani nell’esperienza dell’immigrazione, cit. 

[14] Feuerbach L., L’uomo è ciò che mangia, Introduzione a cura di Andrea Tagliapietra, Bollati Boringhieri, Torino 2017.

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