L’INTELLIGENZA INORGANICA E IL GENIO IMPOTENTE

N. 1 -

Anno 2025

Chi tenta di leggere l’”ontologia del presente” (“cos’è questo presente a cui io appartengo?”) facendo un uso pubblico (critico) della ragione, deve cercare di cogliere allo stesso tempo la tonalità emotiva che sta dietro le domande che l’attualità fa emergere. L’emozione non è qualcosa di irrazionale, ma è un punto interrogativo sul mondo che ci permette di vedere ciò che ci coinvolge, che ci chiede di essere osservato e, nel caso, risolto. Le emozioni sono algoritmi biochimici vitali per la sopravvivenza, sia individuale che di specie. “Algoritmo” è forse il concetto più rilevante del nostro mondo, e designa un insieme ordinato di istruzioni, che possono essere usate per fare i calcoli, risolvere problemi e prendere decisioni. Un algoritmo non è un calcolo ma il metodo seguito per fare il calcolo (per calcolare ad esempio, la media tra due numeri oppure preparare una ricetta occorre seguire delle istruzioni). Per raggiungere l’obiettivo si può anche costruire una macchina che incorpori un certo algoritmo e che entri in azione seguendo un preciso schema di istruzioni. Se gli algoritmi che controllano un normale macchina (ad esempio un distributore automatico) funzionano grazie ad un apparato meccanico e circuiti elettrici, gli algoritmi che controllano gli umani funzionano attraverso sensazioni, emozioni e pensieri.

Alla emozione poi si lega, in un processo senza soluzione di continuità, il sentimento che, rispetto alla prima, ha a che fare soprattutto con la vita interiore, e dunque è meno visibile e rimane più privato.  Il sentimento si può definire spinozianamente, come l’idea (pensiero, percezione) che il corpo sia in un certo modo. Secondo il neuroscienziato Damasio, che ha ripreso la lezione del grande filosofo, i sentimenti insorgono non solo dalle emozioni, ma da tutte le reazioni omeostatiche del corpo, e traducono nel linguaggio della mente lo stato vitale in cui versa l’organismo. I sentimenti sono percezioni legate alla variazione del nostro stato di potenza, e dipendono fortemente dalle nostre modalità di elaborazione mentale. La quantità smisurata di dati che percepiamo continuamente attraverso il corpo e la mente sul mondo che ci circonda viene elaborata alla luce della nostra esperienza, del nostro atteggiamento mentale, di una visione del mondo e ci offre una risposta ad una domanda implicita che accompagna costantemente la nostra vita: ci dice se stiamo bene o se stiamo male, come percepiamo il mondo intorno a noi. È un indicatore della nostra potenza di agire che varia continuamente (come aumento o diminuzione) in relazione agli incontri che faccio e ai sentimenti che vivo. Gli stimoli emozionalmente significativi vengono interpretati, inoltre, anche in base ai codici di lettura che ci sono stati trasmessi dall’ambiente sociale e dall’educazione. E dunque la risposta su come ci sentiamo può essere il frutto di una elaborazione a partire da una esperienza diretta, a contatto con il proprio sentimento profondo, oppure condizionata da un immaginario colonizzato da un certa visione del mondo.

Tutto è algoritmo, cioè “intelligenza”. Nella sua prima definizione, l’intelligenza è «capacità di attribuire un conveniente significato pratico o concettuale ai vari momenti dell’esperienza e della contingenza»[1]. Ciò implica la possibilità di fare una reale esperienza (un’esperienza in cui la contingenza e l’imprevedibilità mantengono una rilevanza fondamentale) e di operare una significazione. Che sia in gioco l’amore, un lavoro, la crescita dei figli, «una paralisi frenetica presidia l’azione e il discorso» (Virno). Non si riesce a fare ciò che conviene e si desidera. Esprimersi, far valere un’istanza sul lavoro, rivendicare un’idea politica, tessere un’amicizia o un amore: tutto ciò richiede una potenza che sia in grado di passare all’atto, una forza capace di convertirsi in pensieri e azioni. Possibilità che se non si realizzano non fanno che ristagnare. Cominciamo a dire (lo riprenderemo più avanti) che la possibilità si può esprimere anche nella modalità della sua sospensione, dell’astenersi: come un subire, un patire, e dunque come incapacità sul piano della realizzazione, come un’impotenza. Interpretazioni anch’esse, istruzioni su come (non) agire, algoritmi contenuti nelle nostre emozioni, che riflettono un mondo e che bisogna saper ascoltare.

Da qui l’idea di mettere a tema il fenomeno umano dell’intelligenza, dalla prospettiva concreta delle emozioni e dei sentimenti che ci suscita, e che nella fattispecie, a mio avviso, può dare origine a una passione triste molto specifica, che segna il tempo presente: il sentimento di impotenza. La nostra percezione immediata è di muoverci ovunque tra algoritmi. Noi stessi, in quanto organismi viventi, per la scienza non saremmo altro che algoritmi e la vita un grande processo di elaborazione dati. Apparire noi stessi come efficienti elaboratori di dati ci fa sentire adeguati, all’altezza di questo mondo. Stiamo usando per lo più la nostra intelligenza per costruire macchine che incorporano gli algoritmi, cioè quella stessa intelligenza. In tal modo generiamo un processo di delega di funzioni continua (di memoria, di orientamento, di calcolo, di scrittura, ecc.), a causa del quale il nostro cervello sembra perdere parte delle sue capacità. Se non sviluppo le connessioni celebrali necessarie per effettuare un calcolo, perché quest’operazione è garantita in maniera più efficace dalle macchine, il mio cervello farà sempre più fatica a compierlo. E così lo spazio proprio degli esseri umani tende a ridursi, in quanto viene occupato dalle tecnologie. Non si tratta di uno spazio esterno, ma quello spazio siamo noi stessi, i nostri corpi, le nostre pratiche. Questo processo, che equivale ad una sorta di colonizzazione in gran parte inavvertita, perché il mondo digitale è un mondo ludico, determina tuttavia una formattazione del pensiero, del modo di vivere e percepire, cui è complicato sottrarsi.

Basta un po’ di osservazione per rendersi conto che le persone soffrono del senso di inevitabilità che si respira in un clima pervasivo di legittimazione dell’esistente e di cinismo. Si va avanti per inerzia, tra la fine di un vecchio ordine e l’inizio di uno nuovo, schiacciati da una realpolitik il cui principio è “vinca il più forte”, e il più forte è chi può sfruttare la potenza algoritmica per i suoi scopi. Un altro modo per riformulare la citatissima profezia gramsciana secondo cui, tra il vecchio mondo che muore e il nuovo che tarda a venire, «in questo chiaroscuro nascono i mostri».

Che sia percepito o no, il sentimento di impotenza nasce dal fatto che le persone entrano in rapporto per lo più con una forma intelligenza “sradicata” dalla vita di un corpo, di una vita singolare, una intelligenza che definirei “inorganica”. L’essere umano si ritrova al servizio di una creatura planetaria, superintelligente, una grande macchina tecnoeconomica, che sempre più gli appare dotata di una propria volontà di potenza, e di cui è ormai poco più che un ingranaggio. Questa strana entità è il prodotto delle intelligenze umane ma si comporta come se fosse una specie vivente autonoma. Questa immensa rete di connessioni, fatta di istruzioni semplici e complesse, non potrebbe continuare ad esistere se non “catturasse” gli esseri umani nel loro funzionamento. D’altra parte gli organismi viventi hanno il problema di mantenere un rapporto conflittuale, critico, con tutti i dispositivi che alimentano il grande sistema, per poterli integrare metabolizzando la loro potenza (che nel suo sviluppo cerca appunto di autonomizzarsi). Se tutte queste intelligenze materializzate nei prodotti garantissero alle persone l’espressione delle loro potenzialtà, evidentemente non ci sarebbe nulla da discutere, nessuna criticità da rilevare.

Negli ultimi decenni, parallelamente al potenziamento dei prodotti tecnologici, è cresciuta anche l’esigenza della sicurezza (che di quel potenziamento ne è la causa), che ha subito un’estensione tale da diventare un valore dilagante. Si tratta di una cultura, di un sistema di credenze, in cui la sicurezza è diventata un valore sacro. La sicurezza ha sempre la meglio su qualsiasi altra preoccupazione di ordine pratico o morale, a prescindere dai reali elementi di pericolo. Purtroppo l’umanità investe sempre più risorse sulla tecnologia e sui sistemi di prevenzione, ma non riesce a prevedere eventi catastrofici. Dopo esser vissuti per decenni all’insegna della promessa di felicità, pace, prosperità, e ultimamente persino vita eterna con i nuovi guru dell’hi-tech, cominciamo a scoprire che la tecnoscienza non costituisce un argine alla imprevedibilità, alla fragilità, alla violenza. L’intelligenza che ha prodotto e accompagnato l’esplosione della potenza tecnoscientifica non può più essere associata al raggiungimento di una società più vivibile, che assicuri agli esseri umani la soddisfazione dei loro bisogni. Il problema ovviamente non sta né nella tecnica né nella scienza in sé stesse, quanto nel fatto che la nostra cultura è ingabbiata in un immaginario illusorio, in base al quale quelle promesse possono essere mantenute solo grazie alle invenzioni tecnologiche. E così, sempre più Impauriti da tutto ciò che sfugge al controllo umano, continuiamo a perseguire l’idea titanica e onnipotente di poter eliminare ciò che, dal punto di vista della sicurezza, è percepito come negatività. Se la promessa non viene mantenuta, lo si deve ad una potenza non ancora abbastanza sviluppata. Tale sembra il modo più semplice e rassicurante di pensare, almeno finché il nostro immaginario continua ad essere colonizzato dal tecnico-economici che piega la scienza al suo servizio, sfruttandone le innovazioni e le scoperte[2].

Le tecnologie digitali sembrano svilupparsi in modo totalmente autoreferenziale, creando una nuova dimensione di realtà che non riconosce alcuna alterità. Fino a poco tempo fa era ben presente la consapevolezza della differenza tra la modellizzazione del mondo e il reale, tra il simbolico e la cosa da simbolizzare. Oggi, invece, la sola realtà che esiste è quella modellizzabile e ciò che sfugge all’intelligenza incorporata nell’algoritmo non è altro che rumore di fondo. Come dice Benesayag, «nel mondo discretizzato in bits d’informazione non c’è nessuna differenza, nessun pluralismo: se tutto è algoritmico, la realtà intera è riducibile agli stessi elementi semplici che la compongono». A questo punto non ci si pone neanche più il problema di sapere se il modello proposto rappresenta adeguatamente la realtà, perché in questo modo si conferirebbe alla realtà uno status di alterità che non ha più. L’antica e gloriosa nozione della filosofia, “essere”, ha trovato una nuova definizione nell’”essere algoritmico”, che si pone come la sola realtà possibile, in un’autoreferenzialità totale e compiuta.

Purtroppo però, la vita, i legami, includono nel loro sviluppo elementi di imprevedibilità e di contingenza non eliminabili, dimensioni non padroneggiabili dell’esistenza e irrappresentabili, che appartengono allo sviluppo dell’essere, come loro ombra. Forse proprio per questo ci si può sentire stupidi se non si appartiene né agli “integrati” né agli “apocalittici”, né agli ingenuamente ottimisti, né ai catastrofisti, che possono contare su rappresentazioni certe, benché spesso fallaci.

Ci assale allora un dubbio drammatico sulla natura della nostra intelligenza. Temiamo che la nostra risorsa fondamentale non ci possa salvare, ma nemmeno ci aiuti a risolvere i problemi e a vivere bene. Da questa incertezza emergono nuovi interrogativi (ben evidenziati nell’editoriale) niente affatto scontati, visto che siamo immersi in quello che sembra il migliore dei mondi possibili, il mondo informatizzato degli algoritmi, ricco di intelligenza e sapere. Un’intelligenza evidentemente dissociata dalla esperienza, dalla situazione reale di vivibilità e di abitabilità, e che tuttavia identifichiamo come l’espressione più potente dell’intelligenza.

Che genio è quello dei novelli dottor Stranamore, che molti temono di rivedere nelle maschere dei padroni dell’hi-tech?
Ciò che a molti appare come l’incubo di un’intelligenza combinata con potere e denaro, con logiche cioè, nel perseguimento della massima potenza, alla fine si rivelano spesso distruttive. È triste constatare come le intelligenze delle “grandi menti” del nostro mondo, che detengono un enorme potere, non si pongano gli stessi problemi (buona parte delle risorse di Elon Musk sono impiegate per rendere possibile un prossimo trasferimento dell’umanità su Marte, una volta che il nostro pianeta sarà reso inabitabile anche a causa di questo sviluppo tecno-scientifico non metabolizzato).

Più ancora che dei grandi geni conclamati, sarebbe più ragionevole interessarsi del genio diffuso, dell’intelligenza collettiva, ovvero della capacità dei molti di risolvere i problemi in modo cooperativo (che è poi ciò che ha conferito agli umani il vantaggio evolutivo sugli altri animali). Un genio che sembra imprigionato nella lampada di un mondo che inibisce lo spirito di collaborazione e favorisce l’autismo individuale. Tanta, troppa intelligenza resta in uno stato virtuale, rendendo questo mondo più povero di come potrebbe essere. 

A tutto vantaggio della macchina nel confronto con l’umano, il quale esce sempre più soggetto a quella che il filosofo Günther Anders, in un libro profetico del 1956 (L’uomo è antiquato), aveva chiamato «vergogna prometeica»: il senso di avvilimento e sconforto che l’uomo avverte nei confronti dei dispositivi da lui stesso progettati e costruiti, che lo superano su tutti i fronti. Questo avviene non solo a causa del divario di potenza, ma anche perché, come ci spiega lo storico e filosofo Harari, «l’intelligenza si sta separando dalla coscienza». Eserciti, aziende (luoghi dove sempre più decisioni critiche vengono delegate ad algoritmi) non possono funzionare senza agenti intelligenti, ma non hanno bisogno di una coscienza e di esperienze soggettive. Se fino ad oggi l’evoluzione dell’intelligenza e della coscienza andavano di pari passo, per cui soltanto esseri consapevoli potevano portare a termine compiti che richiedevano notevoli capacità intellettive, oggi il mondo dell’hi-tech sta sviluppando nuovi tipi di intelligenza non cosciente, in grado di operare in modo più efficace degli umani. Tali compiti sono basati sul riconoscimento di pattern, e algoritmi incoscienti potranno presto superare la coscienza umana nella capacità di identificarli. Dopo aver navigato per milioni di anni sulla rotta della consapevolezza, l’evoluzione dei computer inorganici potrebbe tracciare un percorso alternativo e molto più veloce verso la superintelligenza. Da qui la conclusione inevitabile, che homo sapiens, così come lo conosciamo, sembra aver esaurito il suo percorso storico e in futuro potrebbe non essere più rilevante.

Con il proposito di controllare la nostra esistenza abbiamo messo la nostra intelligenza dentro dispositivi che hanno una potenza di calcolo ed elaborazione dati infinitamente maggiore rispetto alle nostre capacità, per poi accorgerci che questo non ci ha garantito quella sicurezza sperata. Senza neanche renderci conto che stavamo separando l’intelligenza da quello specifico umano che è la coscienza, di cui potremmo non sapere che farcene nel sistema organizzativo che stiamo costruendo e che si sta imponendo.    

Insomma nel nostro mondo sembra circolare sempre più intelligenza, poi però tutto ci scappa di mano. L’uomo si sente antiquato o è davvero antiquato?
Oggi più che mai, alle prese con una serie di problemi che mettono a rischio il nostro rapporto con il mondo, di cui la progressiva potenza tecnologica (nella fattispecie l’intelligenza artificiale) è uno dei più cruciali, è necessario tornare ad interrogarci sullo specifico umano. Dovremmo allora partire dal corpo, dalla specificità del nostro cervello, il terzo strato formato dalla neocorteccia cerebrale. A quel punto dovremmo indirizzarci sulla particolare produzione della neocorteccia, e cioè l’intelletto, capace di analizzare e capire il segreto delle cose. L’analisi, gloria dell’intelletto umano, è la freddezza dell’intelligenza che come un bisturi entra nei corpi. Il guaio è quando si estende anche nell’ambito delle relazioni. Allora abbiamo bisogno di un altro tipo di intelligenza, una forma, per così dire, più calda. È la ragione che sa fare sintesi e quindi dà un senso e un significato alle cose, conferendo prospettiva e visione d’insieme. Se ci riferiamo, infatti, a quella che per Hannah Arendt è «la più grande scoperta di Kant», c’è una distinzione fondamentale tra l’intelletto e la ragione: il primo genera conoscenza mentre la seconda genera significato. C’è una bella differenza tra le due cose, perché si può avere una grande conoscenza del mondo e non vedervi alcun significato, connessioni tra dati ma non costruzione di senso.

Oggi a me sembra che il fantasma di questa superintelligenza non sia più materializzato solo nelle macchine, ma si sia incarnato direttamente nel nostro prossimo, nell’altro con cui ci confrontiamo ogni giorno. Il perturbante è il cervello che funziona come una macchina, che segue le istruzioni piuttosto che stare in rapporto con il proprio corpo immerso in un ambiente. I corpi pensano nella produzione di una vera e propria “intelligenza” delle loro vite, situazioni e traiettorie, che si realizzano in termini geometrici e che poi si articolano con il pensiero logico-formale (Benesayag)[3]. La tecnica si propone di emancipare il pensiero logico-formale, visto come una serie di algoritmi e informazione, dalla base materiale del cervello, per trasferire tale “nobile” funzione alle macchine che non sbaglierebbero come gli umani. Possiamo dire, dunque, che pensano e agiscono soltanto i cervelli e gli organismi situati. L’intelligenza è sempre delle situazioni, vale a dire che nessun organismo “è” intelligente in sé, in maniera isolata da un ambiente e dalle situazioni a cui partecipa.

È con il cervello sradicato che temiamo il confronto, e se il confronto ci spaventa, per cercare di non essere antiquati, siamo spinti sempre più ad adeguarci a questo tipo di funzionamento e a rinunciare ai tempi lenti tipici del pensiero maturo e riflessivo. E così si finisce per tornare al regime veloce e irriflesso, tipico dell’uomo primitivo che doveva prendere decisioni rapide in vista della propria sopravvivenza. Il passaggio dal regime rapido dell’intelletto al regime lento è stato alla base dello sviluppo della civiltà, del pensiero astratto e simbolico, dell’arte e della scienza (Lamberto Maffei nel suo Elogio della lentezza). Già, perché la scienza è ricerca, richiede tempo e concentrazione, mentre la tecnologia somiglia al tocco magico della bacchetta che fa scaturire all’istante le meraviglie più sorprendenti. Se già il padre della cibernetica, il matematico e filosofo Norbert Wiener, ammoniva che, una volta uscito dalla bottiglia, il genio della tecnica, e cioè dell’intelligenza inorganica, non avrebbe più voluto rientrarvi. Da una parte, dunque, un genio con il suo corpo che è imprigionato e dall’altra un genio artificiale in piena espansione che non vuole rientrare nei ranghi e non sopporta alcuna limitazione.

Una comprensione dei problemi senza il necessario coinvolgimento emotivo che la informa (l’emozione è informazione) ha come risultato un’incomprensione. «Per poter reagire in modo ragionevole si deve prima di tutto essere ‘commossi’, e l’opposto di emozionale non è il ‘razionale’, qualunque cosa questo significhi, ma l’incapacità a lasciarsi commuovere, in genere un fenomeno patologico, o il sentimentalismo, che è una perversione del sentimento» (Arendt). Come dice Sarantis Thanopulos nel suo ultimo Il pensiero affettivo (scritto insieme a Ginevra Bompiani), l’emozione pensa e il pensiero si emoziona, si commuove, a partire dl nucleo originario del pensiero: il pensiero che è la prima forma dell’affetto, il senso senza significanti della nostra esistenza privo di una sintassi conoscitiva. Nato come senso puro, primario delle cose, il pensiero sop-pesa il tessuto dell’esperienza vissuta, “grezza”, pre-sente e anticipa la trama della sua tessitura. Il nucleo originario di ogni nostro pensiero non è, come pensava Cartesio, «penso dunque sono», ma “ho senso, vi è senso, dunque ci-sono”. Da questo “fondo” partono diverse modalità di pensiero, che passano per il pensiero onirico, il pensiero espresso con il linguaggio verbale e arrivano fino alla forma più astratta (l’algoritmo), dove aumenta la precisione e la chiarezza, ma diminuiscono l’espressività e la lungimiranza. Eliminando l’imprevedibilità, la scoperta, la razionalità algoritmica riduce il rapporto con la realtà alla propria logica di misurazione. Quando, come oggi, si discute sulla possibilità che gli algoritmi possano capire i nostri sentimenti meglio di noi stessi, questo significa strappare l’intelligenza dal commercio delle relazioni da cui dovrebbe nascere. Sapere ma non sentire, dunque. Quest’uso dell’intelligenza, quando è imperioso, a lungo andare devitalizza e produce mistificazione.

Tantissimi, soprattutto giovani, sono coloro che sentono il mondo in maniera profonda, che sono toccati dall’epoca e le sue sfide, che lo patiscono e ne sono feriti. Ma il patire, se rimane tale, è una forma di impotenza. Allo sviluppo senza limiti della potenza tecnologica corrisponde un aumento senza precedenti di una esperienza condivisa di impotenza. Le crisi e il caos attuali si esprimono anche attraverso questa esperienza, come se avessimo perso il controllo, come se lo spazio d’azione si fosse ridotto, o peggio come se la capacità stessa di agire fosse venuta meno. Un vissuto di impotenza che può causare un grave disagio esistenziale e psichico in chi si sente spettatore della propria vita, slegato dalla propria potenza d’agire e di esistere.

Sono le stesse forme di vita contemporanee ad essere segnate dall’impotenza. Questa impotenza è tanto più sorprendente in quanto, lungi dall’essere causata da una mancanza, si associa ad una sovrabbondanza di capacità, competenze, abilità. L’impotenza attuale sembra essere il frutto di un eccesso di possibilità che, non riuscendo a convertirsi in azioni, non fa che ristagnare, provocando una rassegnazione carica di risentimento. Come dice Paolo Virno, all’origine c’è un «eccesso inarticolato di potenza», ovvero una insufficiente limitazione di potenza, perché una facoltà si attua soltanto se viene circoscritta, frenata, indirizzata. C’è un pieno possesso di una potenza che però è inibita nel suo passare all’atto, come un «motore che romba freneticamente con la marcia a folle». Una sorta di burn out generalizzato.

Lo sviluppo autonomo della potenza tecnologica e l’aumento dell’impotenza fanno in realtà parte di un unico processo. Lo spazio vitale delle nostre pratiche e quello occupato dalle nuove tecnologie è il medesimo, senza però che sia stata approntata una dinamica di integrazione adeguata, con conseguente riduzione dello spazio dato all’esperienza corporea. Non c’è neanche un nemico esterno con cui combattere, ma processi da regolare e invertire. Processi causati da uno sviluppo convulso della intelligenza depositata nei dispositivi tecnologici, che esige reazioni sempre più rapide, e che ci spinge a tornare al funzionamento veloce, lineare, facendoci perdere i frutti del progresso. Se il tempo corre solo in avanti, diventiamo prigionieri dei fatti. Vuol dire che non abbiamo il tempo di vivere i nostri paesaggi emotivi. Per questo occorre decidersi, se vogliamo impiegare la nostra intelligenza per costruire macchine che pensano al posto nostro – in un mondo trasformato in una megamacchina planetaria, sede di un’intelligenza connettiva di cui ciascuno di noi non sarà che una particella guidata da algoritmi onnipotenti e capaci di eliminare ogni residuo di libero arbitrio e di responsabilità – oppure macchine che ci aiutano a pensare.  

Né l’illusione romantica di un ritorno ad un passato puro, vana opposizione a processi inarrestabili, né la trappola della promessa di una tecnologia onnipotente che ci salverà (da chi poi se non da noi stessi), la vera sfida dell’intelligenza sta nella capacità di sperimentare le possibilità di regolazione dello sviluppo tecnologico, in modo da aumentare la potenza di agire e di pensare degli esseri umani, nella loro pluralità; si misura nelle pratiche di metabolizzazione della potenza tecnologica, in cui le macchine sono messe al servizio della cultura, della vita, dei legami, qui sulla Terra, per l’umanità intera. La mente intelligente deve osservare la realtà, farsene istruire costruendo idee praticabili, orientate da politiche che non siano anch’esse preda di visioni onnipotenti e oligarchiche.  

Il rischio è che se investiamo troppo su come aumentare l’efficienza degli algoritmi, la velocità delle connessioni Internet o lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, e troppo poco per esplorare la mente umana, finiamo per alimentare la naturale stupidità degli esseri umani, ridotti a esseri mansueti che producono enormi quantità di dati ma non sono capaci di coltivare il loro potenziale. Perché non impegnarci nell’altra forma di sviluppo (la seconda gamba su cui si regge l’umanità[4]) che punti ad integrare intelligenza e coscienza?

Impotenza, si diceva, che nasce da una incapacità di limitare quella potenza a cui ci siamo affidati, che non conosce restrizioni e che non vuole sentire ragioni, perché ormai il genio è uscito dalla lampada. Attraverso il filo conduttore del concetto di potenza si potrebbe ricostruire l’intera storia della filosofia, per cui, semplificando al massimo, possiamo riassumere le diverse concezioni in due correnti: una linea classica, che associa la potenza alla possibilità, il che comporta una strutturale ambiguità, perché è potenza di essere e di non essere, di fare e di non fare (Agamben). La potenza è potenza di non, apparizione primordiale della soggettività che definisce, per così dire, la “non-naturalità” dell’uomo, la “negatività” incarnata di questo essere del possibile privo di una stabile identità, cioè del carattere della necessità (il non poter non), concessa agli dei, e forse anche agli animali. Insomma quasi una perversione della natura che, secondo Pico della Mirandola, era anche il segno della sua trascendente dignità e grandezza.

La seconda linea è, viceversa, proprio la potenza come necessità, nel senso anche di destino. Alla famosa rana stupita per il morso dello scorpione, che condannava entrambi ad una morte certa per annegamento, lo scorpione poteva solo rispondere che quella era la sua natura, che non poteva (non) fare diversamente, nonostante la promessa fatta (la promessa come il segno di una soggettività che può mantenerla o venir meno alla parola data). Qui la potenza è affermativa, non può che attuarsi pragmaticamente nell’esercizio stesso della “capacità di”. Se ci pensa, questa è anche la logica dell’eroe (da Achille, Antigone, Ettore, Alcesti, a Falcone e Borsellino, tutti esempi di personalità convinte di morire per una degna causa), nel cui linguaggio e agire non si troverà mai indecisione, una questione di scelta o di morale. Semplicemente l’eroe va incontro a un rischio mortale perché non può non fare quello che fa. Non c’è propriamente una soggettività, nel senso che il soggetto sta dentro dei processi in atto di cui non è che un effetto, fa tutt’uno con una potenza specifica che lo individua.

Questa può essere anche la logica della geopolitica, dei rapporti tra Stati, ovvero tra Imperi che non possono non mettere in atto la loro logica di potenza (è ciò a cui stiamo assistendo in questo momento preciso della storia). Si tratta, ad ogni modo, di un sentire, di un sentirsi all’altezza del proprio destino da parte di un soggetto agente. Il che può comportare scelte tanto esemplari nel loro valore quanto violente, dalle conseguenze esiziali. Tanto una comunità di destino totalitaria, guerrafondaia, quanto universalistica, unita nell’affrontare rischi planetari. La potenza come destino implica il “prestigio della forza” che può avere come esito anche la mobilitazione di energie vitali impegnate in cause comuni.

A questa «volontà di potenza», nella quale noi siamo disposti dal potere anziché disporne, si oppose Simone Weil, decisa nel rifiutare il fatto che fosse la forza a disporre del soggetto. Da qui l’esigenza di cercare un punto esterno di trascendenza, in modo tale che il potere, invece di esercitarsi in modo automatico, in un punto si potesse riflettere in sé stesso e aprirsi ad una domanda: siamo i più forti e dunque vi ammazziamo oppure, proprio in virtù di questa forza, ci possiamo astenere dall’esercitarla.

L’animale umano non è la potenza ma la ha. Mentre il verbo essere stabilisce un rapporto intrinseco di identità del soggetto con il predicato, i termini congiunti dal verbo avere restano distinti, il loro rapporto è estrinseco (Benveniste). Estrinseco, cioè lontano dalla immedesimazione: la potenza serba un distacco nei confronti del vivente che la ha. Di conseguenza, “avere la potenza” significa affrontare sempre di nuovo, con esiti incerti e talvolta catastrofici, la questione della sua realizzazione. La potenza di X è sempre, ad un tempo, potenza di non. Impotente, allora, è propriamente chi resta inchiodato sulla soglia tra due possibilità di pari valore. L’impotenza è l’esperienza diretta di una potenza che resta tale. Ma una cosa è sostare nella indecisione, altra cosa invece è sospendere consapevolmente una realizzazione che è sotto il proprio controllo, che è in proprio potere eseguire.    

La possibilità comporta che si apra in noi uno iato, la famosa «indeterminazione» pichiana, che contraddistingue l’umano in quanto tale. Ciò che ci definisce, allora, non è una facoltà specifica, questa o quella intelligenza, ma è lo spazio aperto tra il nostro corpo, le nostre diverse intelligenze, i nostri sentimenti, e noi stessi. Siamo e non siamo. Per certi versi, l’avere comporta l’essere e il non essere. Questo vuoto, questa distanza, è ciò che causa la nostra natura indefinita, e che ci consente di poter usare la nostra intelligenza o al servizio della giustizia, del bene comune, per quanto possibile in modo universalistico, oppure al servizio di una volontà di potenza sfrenata, onnipotente. Tutto in noi mostra la medesima ambiguità. L’essere umano è in sé antinomico. Tutto dipende dalla cura e dalla educazione di questa ambiguità originaria che ci costituisce, e che va sostenuta senza che debba risolversi in modo immediato. In questo senso anche l’intensità di un sentire che deriva dalla “necessità” può farci superare quel senso di impotenza che ci sta portando ad accettare come ineluttabili calcoli (algoritmi) che non tengono conto della vita delle relazioni in cui pure sono nati. 

Forse, allora, il modo più fecondo di trattare la questione dell’intelligenza è di porla in relazione alla nostra caratteristica essenziale, a questo abisso che ognuno di noi è. Una specificità che è al cuore della nostra potenza, e che consentirebbe all’intelligenza, come dice Pico, di farti «degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti» o «rigenerarti nelle cose superiori che sono divine».

NOTE

[1] Dovrebbe essere sempre fonte di meraviglia rendersi conto di trovarsi all’interno di una intelligenza operativa depositata già nel proprio corpo (le emozioni sono un fenomeno innanzitutto del corpo). Anche quando si tratti di emozioni dolorose, è sempre l’intelligenza depositata nel nostro cervello a farcele provare, e quindi sarà sempre l’intelligenza che potrà comprenderle e generare una mente consapevole. Tutte le emozioni rappresentano un messaggio, una informazione, e dunque richiedono di essere riconosciute, accettate e interpretate. Siamo radicati nella biochimica ma non siamo riducibili ad essa: c’è il lavoro dell’intelligenza a fare la differenza. Anche, ad esempio, quando leggiamo un testo (il fenomeno che sta esercitando ognuno di voi in questo momento): senza la biochimica nessuno potrebbe leggere, ma i neurotrasmettitori che sono all’opera nel cervello, pur veicolando le informazioni tra le cellule del sistema nervoso e provocando le medesime reazioni chimiche, generano differenti reazioni emotive e intellettuali nella mente.

[2] Occorre riconoscere che niente più del profitto capitalistico si è dimostrato capace di promuovere nell’essere umano potentissime motivazioni e ingenti investimenti anche nel campo scientifico, di cui un esempio recente è stata il finanziamento della ricerca sui vaccini anti-covid.

[3] Si pensi al pilota di un aereo che deve integrare il suo corpo al corpo dell’aereo e offrire risposte riflesse agli stimoli della macchina, senza mettersi a pensare a ciò che deve fare, altrimenti l’aereo cade.  In questo caso il pensiero si effettua attraverso calcoli geometrici (istinto) che dipendono dalla muscolatura, dalla propriocezione, dalle proiezioni spaziali del cervello, senza che si passi mai a una formalizzazione simbolica di esso.

[4] Nel mito di Prometeo raccontato da Platone nel Protagora, si dice che nonostante il possesso delle tecniche, gli umani si sarebbero estinti se Ermes non avesse portato loro l’arte politica, ovvero rispetto e giustizia, come fondamenti dell’ordine della città e vincoli d’amicizia

Ultimi articoli

COMUNITÀ INCLUSIVE

Pianista, musicista, docente, formatrice, adesso, per un breve periodo tutor coordinatore dei percorsi abilitanti, ma soprattutto persona complessa che, senza

Read More »