Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000.
Per questo lui è il padrone.”
Con questa affermazione contenuta nell’opera più famosa di Don Lorenzo Milani, “Lettera ad una professoressa”, si constata, indipendentemente dalle opinioni politiche, espresse in più occasioni dal priore di Barbiana, che uno dei punti centrali del suo pensiero è la lotta di classe.
Lotta di classe dettata dalla volontà di far esprimere i figli dei contadini, i contadini stessi, per raggiungere nuove condizioni sociali ed economiche dando loro quel diritto di cittadinanza negato da sempre. Una lotta di classe non di natura marxista bensì clericale, perché egli, don Milani era un fervente cristiano ed agiva per il bene della Chiesa. Nonostante ciò, la Chiesa non lo comprese da vivo e lo emarginò, convinta che il suo pensiero non conforme ai dettati della dottrina corrente potesse assopirsi una volta trasferito in un remoto luogo del Mugello.
In pari tempo, il modo di operare di don Milani fu visto dai pedagogisti dell’epoca come un fatto minore, confinato com’era in un luogo sperduto e insignificante, senza alcun valore pedagogico, in quanto non si ispirava ad alcuna teoria ed esperienza riconosciute.
Infatti, quando il “professorone”, come già tanti avevano fatto, contestò il fatto che nella Scuola di Barbiana non ci fosse la ricreazione citando il pedagogista Polianski, tutti ammutolirono, salvo poi quando egli andò via, sentir dire da Lucio (uno dei suoi studenti che aveva da badare a 36 mucche nella stalla) “la scuola sarà meglio della merda”.
Tuttavia, la diffidenza verso questo prete di campagna (ma di famiglia borghese benestante e di città) era così grande quanta la curiosità verso la sua scuola. Praticamente tutti andavano a Barbiana per vedere, contestare o appoggiare il suo metodo di insegnamento. Sta di fatto che don Milani fu un mito da vivo per diventare poi un’icona della Scuola italiana e di una certa politica negli anni successivi, influenzando il movimento del ’68 oltre che il pensiero pedagogico di questo millennio, con tanti proseliti e manifestazioni celebrative per i 100 anni dalla sua nascita.
Don Milani però era un servitore della Chiesa, facile alla polemica, sempre documentata da dati statistici, e piena di considerazioni sull’eguaglianza e sulla giustizia sociale. Oggi diremo che la sua esperienza è stata la prima vera azione di lotta nei confronti della povertà educativa. Un modo di lottare in contrapposizione a quanto lo Stato offriva, attraverso la sua organizzazione scolastica, che penalizzava fortemente gli ambienti rurali e difficili da raggiungere come nel caso di Barbiana (dove vigeva una pluriclasse e un orario ridotto perché i professori in genere partivano da Firenze con una corriera che arrivava tardi, dopo l’orario di apertura della Scuola).
Don Milani però non era semplicemente un prete di campagna che faceva doposcuola ad integrazione dell’orario scolastico, egli era ben strutturato nei concetti e negli obiettivi da raggiungere, tanto da diventare l’alternativa alla Scuola statale. Lo aveva già fatto a San Donato di Calenzano dal 1947 al 1954, anno in cui fu nominato priore di Barbiana, con una scuola serale per operai e contadini.
La sua indole e il suo attivismo lo portò a considerazioni poco lusinghiere rispetto ad una Chiesa che accentuava “il distacco tra il prete e i suoi fedeli.” Affermando che “Il sacerdote è visto come un funzionario, un burocrate della fede e dei sacramenti, la cui vita non si incrocia mai con quella dei suoi parrocchiani” sottolineando, invece, l’importanza dell’istruzione come premessa all’evangelizzazione e l’esigenza di una Chiesa missionaria, che deve saper amare i poveri. Concetti espressi nel 1958 in Esperienze pastorali che non fu gradito dalle gerarchie ecclesiastiche e che il Sant’Uffizio condannò e fece ritirare dal commercio nello stesso anno.
Con la lettera del gennaio 1965 in Risposta ai Cappellani militari, difese quei giovani, pionieri dell’obiezione di coscienza, che si erano fatti incarcerare (eran 31 nel carcere di Gaeta) ripudiando il servizio militare. E quando i cappellani militari in congedo definirono vili gli obiettori non esitò a rispondere loro sostenendo che l’”obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”, elencando le guerre dell’Italia dal 1860 in poi, definendole di “aggressione” ad altre Patrie e non di “difesa” della Patria come sancisce l’art. 11 della Costituzione, specificando che:
“… in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra «giusta» (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i «ribelli», quali i «regolari»?”
Grazie alla sua passione di insegnare mise in atto una “vocazione” che fa onore al termine, inserendo nella lunga giornata scolastica di Barbiana, materie professionalizzanti, oltre a quelle umanistiche e di partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica.
Nei 13 anni di Barbiana la curiosità che animava i ragazzi (in numero di 48 totali che andarono alla sua scuola) era la stessa di don Milani. La giornata si svolgeva con letture di giornali, di libri che la scuola ufficiale non aveva mai sentito nominare, di temi politici legati ai diritti dei lavoratori, alla possibilità reale dei più poveri di cambiare il proprio stato sociale. Costruì anche una piccola piscina per far vincere la paura dell’acqua a quei ragazzi di montagna, dando ancora una volta il significato diverso di scuola, come luogo di preparazione al mondo e di crescita della persona. Una modalità che ha fatto pensare a molti che egli fosse un prete comunista, nel senso di partito, e che fosse un rivoluzionario. Egli non era sicuramente comunista, nel senso di partito, ma un fervente credente che realizzava un servizio scolastico per non permettere ai “rossi” di avere il monopolio della gioventù (questo lo era in maniera palese nella zona di San Donato presso le Case del popolo, all’interno delle quali si giocava anche a biliardino!
Rivoluzionario lo era di sicuro, visto che non accettava programmi imposti e indirizzava le discussioni e le ricerche sulla base di una “teologia”, che oggi potremmo definire della “liberazione”.
Il suo modo di condurre la scuola era più che rivoluzionario. Basti pensare allo studio ossessivo della Costituzione. Ed è per questo che possiamo affermare che don Milani è stato un teorico dell’antiscuola al pari di quegli psichiatri che hanno teorizzato e professato l’antipsichiatria. Osteggiato dalla Chiesa ufficiale, solo Papa Francesco nel 2017 rende omaggio alla tomba di Don Milani a Barbiana, riproponendo il suo pensiero al mondo intero. Il suo raccoglimento con lo sguardo sulla tomba, il suo capo chino e potremmo anche aggiungere il suo silenzio, ha saputo comunicare il rispetto che si deve ad un uomo che aveva sposato un motto “I care” usato dai neri americani nella loro lotta per i diritti, a testimonianza che non ci deve voltare dall’altra parte e di prendersi cura delle cose e delle persone.
Papa Francesco così si è espresso verso don Milani “la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante.”
A seguito della sua posizione a favore dell’obiezione di coscienza sempre nel 1965 venne denunciato (assieme al direttore del settimanale Rinascita, Luca Pavolini, che aveva pubblicato la lettera) per “apologia di reato, incitamento alla diserzione e alla disubbidienza militare”. Non potendo presenziare all’udienza presso il Tribunale di Firenze per motivi di salute egli scrisse un’altra lettera che ricalcava la precedente, questa volta ai giudici, nella quale il concetto di fondo è che quando le leggi non sono giuste bisogna battersi per cambiarle ed è dovere di ogni cittadino intervenire quando non si rispettano i principi di giustizia, di libertà e di verità.
Ritornando alla Scuola di Barbiana pochi hanno messo in evidenza che il modo di insegnare ed intendere la Scuola da parte di don Milani era all’opposto della formalità con la quale essa si esprimeva e si esprime correntemente. In realtà egli è stato un fautore dell’apprendimento in ambiente non formale, ritenuto indispensabile per creare uno spirito critico capace di affrontare tutti i temi della vita sociale e della vita personale. Non a caso la sua invettiva (o vendetta contro la professoressa?) con la scrittura della Lettera ad una professoressa verso quel modo di fare a seguito della bocciatura di diversi suoi studenti, che pur sapendo molte più cose degli altri, oltre che capaci di fare ragionamenti e deduzioni ignoti agli altri, tuttavia ignari del programma scolastico ufficiale. In questo modo la Scuola ufficiale bocciava la sua concezione di apprendimento bollandolo come inutile e politicizzato.
Don Milani è stato riabilitato veramente solo recentemente dalla Chiesa ufficiale con la visita di Papa Francesco di cui sopra, ma sono stati tanti i sacerdoti che ne hanno apprezzato e seguito l’esempio negli anni successivi alla sua scomparsa (sono da ricordare i preti operai, il movimento dei cristiani per il socialismo, le Comunità di Base, ecc.). Ricordiamo le tappe della sua vicenda giudiziaria come un monito che colpisce spesso gli innovatori.
Il 14 dicembre 1965 si svolge la prima seduta del processo. L’avvocato Gatti chiede che sia allegata la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, insieme ai disegni di legge sull’Obiezione di coscienza.
Il 15 febbraio 1966 don Milani viene assolto dal Tribunale di Roma perché “il fatto non costituisce reato”.
Il 15 dicembre 1966 si apre il processo d’Appello. Il 5 ottobre 1967 la Corte d’Appello di Roma condanna Pavolini per apologia di reato e per don Milani dichiara il non luogo a procedere per la morte del reo.
Il 15 gennaio 1969 la Corte di Cassazione concede l’amnistia a Luca Pavolini. A 100 anni dalla nascita e a 56 dalla morte ora quasi tutti sono donmilaniani, spesso ignari di ciò che egli dovette subire e di cui fu accusato.
In definitiva però, come sostiene in un recente pamphlet Adolfo Scotto di Luzio (L’equivoco don Milani, Einaudi 2023) “Perché il massimo di attese democratiche riguardo alla scuola vengono riversate su un uomo che detestava la scuola pubblica?”
La conclusione potrebbe trovarsi in un meccanismo difensivo della Scuola pubblica che nel tentativo di riformarsi assimila don Milani senza averlo mai veramente letto, attribuendogli virtù che egli non aveva, se non quella di aver dimostrato che il “confino” non impedisce di pensare e di contribuire a cambiare le cose. Ma la domanda che continuamente dovremmo porci: quanti hanno veramente letto un libro intero di don Milani e se la classe docente, compresi di dirigenti scolastici, alla luce dei fatti, concordano con le sue convinzioni di una scuola che non somiglia affatto né alla Scuola di allora, tanto meno a quella di oggi.