Cupa invidia del nulla

Capodanno 2023, Molfetta. Un gruppo di persone appellate in seguito nelle maniere più fantasiose da quotidiani, tv locali, haters e fashion blogger, «prende di mira inspiegabilmente alcune auto parcheggiate», ne sceglie una, con uno sforzo organizzativo e cinetico la ribalta e la fa esplodere con sapiente ausilio di petardi. Nei video amatoriali degli astanti, esclamazioni di una lugubre, apparentemente inspiegabile, eccitazione nichilista. In tutta Italia, 703 sono gli interventi dei Vigili del Fuoco per domare incendi ricondotti ai festeggiamenti del Capodanno 2024.

Dicembre 2020, Roma. Piena pandemia da Sars-Cov-2, mandatorio è evitare qualsivoglia contatto interpersonale non strettamente necessario. Centinaia di giovanissimi si danno appuntamento sulla Terrazza del Pincio per dare vita a una maxi-rissa immotivata, si picchiano selvaggiamente.

Capodanno 1956, Stoccolma. La Kungsgatan, principale arteria del capoluogo svedese, viene devastata da circa 5000 adolescenti per tre ore; occorrerà un lungo e duro intervento della Polizia per ripristinare l’ordine. I giovani non si conoscono tra loro, né si sono organizzati in precedenza. Il fenomeno, che si ripete sostanzialmente analogo in altri finesettimana nella Svezia di metà Secolo scorso, appare «inspiegabile», e stimola interpretazioni disparate. Dall’esibizione di «eversione» al «contagio psichico» di un impulso di annientamento, dalla carica inesplosa di aggressività dovuta a un’eccessiva vivibilità scandinava, al terrore della solitudine cagionato dall’angoscia della lunga notte, che renderebbe i giovani per latitudine simili a «pinguini sulla banchina polare» (R. Bastide); molte ipotesi avanzano nello sconcerto collettivo. Ernesto De Martino, etnologo e filosofo mai pago di interpretazioni unidimensionali, ne propone un’originale lettura nel saggio Furore in Svezia: la società moderna non offrirebbe più momenti di ritualizzazione e immaginazione collettiva della “fine del mondo” – dell’apocalisse – «con eschaton», inteso come risoluzione; a mancare è la fiducia che le molte apocalissi incombenti abbiano una risoluzione, mancano la speranza o la certezza di ripristino di un mondo umano possibile “dopo” (E. De Martino, 1962). Le generazioni del Secondo Dopoguerra osservate da De Martino non si avvalgono più dei dispositivi culturali che in altri tempi e in altri gruppi etnici svolgono la funzione di deflusso collettivo dell’angoscia e del disagio dei singoli, dispositivi in grado di esorcizzare, rendendola pensabile, la fine del mondo in virtù del suo eschaton; la società degli anni Cinquanta, al contrario, è quella della minaccia atomica, apocalissi senza eschaton per eccellenza.

Con l’aiuto di alcuni spunti nati dalle riflessioni di Simona Taliani e Roberto Beneduce (Aut aut, 2023), si proverà a comprovare questa ipotesi. Non occorre andare lontano, infatti, per avvedersi di come sia andata perduta, ad esempio, la funzione del Carnevale. Oggi squallido residuo consumistico, per i popoli di tradizione cristiana esso era il momento dell’anno in cui lecite erano follia e concupiscenza umana, giustificate dal mercoledì dell’indomani, quando la polvere tra i capelli avrebbe ricordato che «cenere sei e cenere ritornerai» e segnato l’inizio della Quaresima, eschaton trascendente e ripristino di un tempo umano di digiuno e timor di Dio.

Analogamente, tra gli Iatmul che oggi abitano le sponde del fiume Sepik in Nuova Guinea, esiste un rituale chiamato «naven» e studiato dall’etnologo inglese Gregory Bateson che consiste nel travestimento dei membri del gruppo con l’habitus caratteristico del genere opposto, l’uomo della donna e viceversa. In particolare, a scambiarsi reciprocamente sono quei costumi di norma rigidamente assegnati a un genere e proibiti all’altro: alle donne è per un giorno consentito di ostentare fierezza, forza guerriera e orgoglio mascolino fino al ridicolo, di camminare diritte, di essere sedotte; agli uomini, di sedurre crudelmente, di mostrare in pubblico tenerezza per la prole e desiderio di accudimento. I toni e il tenore del naven sfociano in una «pericolosa prossimità […]. Poi, all’improvviso, dopo la strana eccitazione che accompagna la derisione reciproca, il tono cambia. Il naven si conclude in un’atmosfera totalmente diversa, nella quale domina la serietà, il silenzio, talvolta anche il pianto» (Houseman, Severi, 1994).

O ancora, con Alfred Métraux, etnologo del voodoo ad Haiti, si può osservare come i “posseduti” di Haiti accettino l’istituto culturale della magia voodoo come causa della propria sofferenza, aderendo al “copione” mitico – non casuale, in Métraux, il linguaggio mutuato dal mondo teatrale – che consente all’intero gruppo sociale di evadere il negativo della realtà nell’esorcismo collettivo e culturalmente normato (A. Métraux, 1959). Tanto gli Iatmul quanto gli Haitiani lasciano defluire l’angoscia individuale nel rito, proprio come un tempo i pazienti manicomiali erano iscritti nella diagnosi psichiatrica, rigida codificazione culturale anch’essa. La grande differenza di quest’ultimi è però nella mancanza di collettivizzazione del disagio, laddove la diagnosi psichiatra responsabilizza il singolo, isolandolo dal sistema.

Diversamente dagli Iatmul, dagli Haitiani e dagli utenti manicomiali, i sofferenti della “nuova” psicopatologia occidentale – che vede “epidemie” di hikikomori o di giovanissimi con disturbo borderline di personalità misto a uso di sostanze e disturbi alimentari, per citarne alcuni – sembra sfuggire tanto alla codificazione culturale quanto all’orizzonte collettivo.

Istituti culturali che conferiscano orizzonte di senso collettivo e poi risoluzione, catarsi, sono ciò di cui per De Martino avrebbe bisogno l’umano per tollerare l’incertezza, la violenza e il dolore del reale. Per il filosofo e etnologo italiano, dinnanzi alla “fine del mondo” è necessaria una postura di «ethos del trascendimento», unica via per scongiurare l’angoscia distruttiva di cui i giovanissimi svedesi – e forse anche gli abitanti di Molfetta – cadono preda: una «cupa invidia del nulla» (E. De Martino, 1962).

Ma all’alba del 2024, allora, esiste ancora un qualche fenomeno paragonabile, per significato e portata culturale, a quel rituale che collettivizza l’angoscia della Fine-con-la-maiuscola e garantisce all’uomo una sopravvivenza alla sua crisi, come lo sono stati nella storia il Carnevale, il naven, il teatro, la corrida?

Pier Paolo Pasolini ha proposto il calcio come «ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro» (P.P. Pasolini, 1970). Come tutto, però, nel terzo millennio anche la dimensione trascendente, catartico-rituale, del calcio – così come quella del Natale, del matrimonio o del funerale – è divorata da logiche consumistiche e individualiste: del rito non è la forma a essere intaccata, quanto la sostanza, la credenza nel suo potere trascendente e la dimensione ontologicamente collettiva. Deprivati delle dimensioni trascendente e collettiva, non sono più in grado di assolvere all’originaria funzione.

Qualcuno a questo punto potrebbe argomentare che l’ethos del trascendimento demartiniano sopravviva eccome nella società contemporanea. Se si prende ad esempio l’ambientalismo, si potrebbe osservare che, al contrario, la portata trasformatrice dei “nuovi” ideali è senza precedenti nella storia: non vi è ormai alcuna multinazionale che non lo abbia tra i valori fondanti la propria mission. Ci si potrebbe allora rallegrare: grazie alla globalizzazione, a Internet, alla velocità con la quale viaggiano le opinioni e l’informazione, ideali “dal basso” giungono nei CDA, centri di potere del nuovo millennio, e ne sono adottati.

Ma non è forse, invece, questo l’unico ideale trascendente consentito? Se le multinazionali petrolifere, mentre continuano a estrarre minerali fossili nei Paesi in via di sviluppo, si sperticano in dichiarazioni ecologiste, se hanno a cuore la salute del mondo e dei cittadini e le pari opportunità, e nessuno ha il potere di negare il proprio consenso nell’unico modo possibile alla società neoliberale – scegliere di non esserne un consumatore – perché nel mercato mondiale sono padrone di ogni cosa, potrebbe non esserci tanto da rallegrarsi della pubblicità del simpatico animale mangia-fuoco dipinto di verde. Potrebbe essere questo, piuttosto, il segno dell’estrema colonizzazione neoliberale: se i ragazzi delle occupazioni scolastiche combattono per gli stessi obiettivi – ad esempio batterie elettriche, energie rinnovabili – delle prime cinque aziende mondiali, forse, non sono le potenze mondiali a desiderare ciò che desiderano le giovani generazioni, ma il contrario.

Grazie a un mercato immediatamente letto e interpretato nei bisogni e nei desideri imminenti, il neoliberismo potrebbe aver trafugato ogni possibilità di trascendimento, appropriandosi in tempo reale dell’ethos che in nuce tenta di prodursi in ogni dato momento storico-politico. È quella che gli etnopsichiatri chiamano la «colonizzazione definitiva»: la colonizzazione del desiderio. Il colonizzato, per non essere ridotto a mero oggetto, è spinto a identificarsi col colono. Dapprima, i sarti camerunensi impararono a riprodurre esattamente le divise dei coloni, i soldati tedeschi; in seguito, inscenano i loro addestramenti; infine, ne arrivano a desiderare la casa, la tecnologia, le mogli; è nato, a questo punto, il fantasma di possesso della vita altrui, un fantasma di vendetta (F. Fanon, 1961). Il processo di colonizzazione, inizialmente innescato dai coloni lusingati dall’invidia del colonizzato, giunto al vertice estremo che è la colonizzazione del desiderio, subisce una battuta di arresto: se i camerunensi assomigliano troppo ai tedeschi, rischia di perdersi quella distanza che consente il dominio. Dapprima ignorato e ridicolizzato, il fantasma di vendetta dell’oppresso si rafforza quanto più i desideri si assomigliano, e ne produce un altro nell’oppressore: ciò che Ghassan Hage chiama «fantasia di colonizzazione rovesciata». Che i migranti possano “rubare il lavoro”, “rubare la casa”, “occupare i nostri spazi”; che possano tolgliere qualcosa agli europei, a chi ha più potere, più tutto.

A interrompere la caduta verso la «cupa invidia del nulla» potrebbe essere allora un nuovo ethos del trascendimento, se si riuscisse almeno a cogliere la lezione di Primo Levi, se si riuscisse almeno a «negare il nostro consenso» alla colonizzazione definitiva. Se riuscissimo almeno a riappropriarci del desiderio, a puntare lo sguardo ancora una volta oltre i confini della contingenza, della materialità e della biologia, e a farlo senza cedere alla patologizzazione del singolo, di questo o quel ragazzino affetto da Disturbo Borderline. A farlo, in definitiva, collettivamente. Allora, potrebbe essere che un giorno un timido, pallido fantasma di colonizzazione rovesciata venga anche in sogno al simpatico animale mangia-fuoco.

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