Arte contemporanea e fruizione

Abbiamo chiesto a Luigi A. Manfreda, esperto di estetica e direttore della rivista Agalma, una riflessione sul tema della fruizione dell’arte, le cui modalità nel tempo si sono inesorabilmente trasformate dall’ideale di accesso a un’esperienza unica e irripetibile (“auratica”, per dirla con Benjamin) all’“inferno” della massificazione.

L’articolo ci guida attraverso prospettive diversificate in Europa e negli Stati Uniti.

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Luigi A. Manfreda, insegna filosofia teoretica presso l’Università di Roma di Tor Vergata ed è direttore del CELP – Centro studi Linguaggio e Pensiero

 

Per l’uomo-consumatore medio, protagonista e ‘tipo umano’ prevalente nelle odierne società occidentali, accostarsi alle manifestazioni dell’arte significa ‘fruirne’. Il fine di questa praxis diviene rendere l’attesa fruizione il più possibile soddisfacente. Con il risultato – certo paradossale – che non ci siamo troppo allontanati dallo scenario descritto nel 1844 da Richard Wagner in Opera e dramma.
Per il borghese, scriveva Wagner, l’esperienza artistica ha l’obiettivo di rallegrare, divertire nel senso proprio del termine, e distendere i nervi affaticati dopo una lunga giornata di lavoro, in cui si sono affrontati i veri, effettivi problemi dell’esistenza. Oggi, l’industria dello spettacolo produce ‘merci’ – a volte anche di valore, ossia di evoluta qualità formale: si veda ad es. la celebrata serie TV True detective di Nic Pizzolatto – che trovano il loro destino e compimento nel grado di approvazione ricevuto dalla platea dei fruitori.

Giorgio Agamben, in Infanzia e storia scriveva – diversi decenni fa – che “messa di fronte alle più grandi meraviglie della terra, la schiacciante maggioranza dell’umanità si rifiuta oggi di farne esperienza: preferisce che, a farne esperienza, sia la macchina fotografica”1.
Oggi tutto questo è divenuto qualcosa che tutti noi possiamo facilmente constatare. Ma è l’insieme delle dinamiche storiche che hanno caratterizzato il secolo scorso a condurre a questo esito, non una semplice, contingente ‘superficialità’. Come aveva intuito Benjamin già nei primi anni ’30, la possibilità di fare esperienza per l’uomo occidentale, che usciva dal trauma del primo conflitto mondiale, si era bruscamente ridotta, sin quasi ad annientarsi. Quel testo mostrava, nelle sue poche pagine, che solo ciò che ha il tempo di sedimentarsi può divenire esperienza tramandabile tramite le generazioni, senso in comune2.

Ora, si potrebbe interpretare l’insieme dell’arte contemporanea come un tentativo di reagire – certo per forme che a volte hanno suscitato perplessità e incomprensione presso il grande pubblico – a questa crisi dell’esperienza. Nel senso di riproporre nuovi spazi – anche mentali – in cui essa divenga di nuovo possibile3. Per questo una parte, forse la più consapevole, di essa, ha tentato di sottrarsi al destino di offrire un prodotto fruibile, preso già da sempre nella rete della valutazione-sistema del mercato (ad es., la Land art e l’Arte povera) – e dunque in un’esperienza artistica ab origine inscritta in codici riconoscibili.


L’arte moderna, ad iniziare dal conflitto-dialogo tra l’anima neoclassica e quella romantica, ha sempre aspirato ad emanciparsi dal ruolo di merce fruibile a cui la relegava il ‘fantasmagorico’ della produzione industriale. Un chiaro ‘manifesto’ di questa pretesa è ad es. La nascita della tragedia nietzscheana: il sogno di un’arte che, come avveniva per la tragedia attica, sia in grado di costituire un evento inscritto nel tessuto più intimo, nel nucleo determinante della vita stessa della polis. Ma oggi ‘il sistema dell’arte’, in Occidente, traccia le due grandi linee di demarcazione dell’esperienza artistica: per un verso si offre ad un numero sempre maggiore di individui la possibilità di accesso al ‘prodotto artistico’, che in forme molto diverse ha una certa diffusione; per l’altro, quello stesso prodotto artistico è inscritto in un circuito in cui, per usare ancora una celebre espressione benjaminiana, ha già da sempre perduto la sua ‘aura’.
Per aura infatti occorre intendere non la ‘celebrità’ di un’opera, come ad es. la Monna Lisa al Louvre, ma il suo spazio proprio – quello entro il quale essa significa, ed è unica e irripetibile. Le lunghe file alle mostre – in Italia ricordiamo quelle per i bronzi di Riace o per Van Gogh a Roma – sono la traccia evidente della perdita di quei mondi in cui una dimensione auratica era ancora possibile.

L’arte contemporanea ha origine da un risoluto distacco dalla nostalgia dell’aura – che nonostante le apparenze era ancora presente, seppure come flebile eco, nell’Art nouveau, o in Ruskin e Morris. Come mostrano le avanguardie storiche, si afferma una piena consapevolezza che non è possibile alcun ‘ritorno indietro’. Ma questo significa, com’è facilmente intuibile, che è la stessa nozione di arte, della sua ‘funzione’, a polverizzarsi. Da Duchamp in poi, è sempre più difficile avventurarsi in una definizione dei confini che segnano i limiti dell’artistico e di ciò che non lo è. Come esempio eclatante, si pensi alla pop art e alle sue esposizioni di barattoli di minestra che si potevano acquistare in un qualsiasi supermercato. A causa del suo indefinito diramarsi, il processo creativo diviene così quella che oggi potremmo definire, con Mario Perniola, ‘arte espansa’4.
Che poi significa, detto in sintesi e semplificando, che l’arte oggi non riconosce con chiarezza i propri confini, e che si avventura in territori sconosciuti ‘contaminandosi’ sempre più con altri saperi, pratiche, discipline che divengono indispensabili per la comprensione della sua stessa ‘artisticità’.

In ogni caso l’interesse che l’arte suscita in quella che una volta veniva definita ‘massa’, e che oggi non si chiama più così poiché nel frattempo il termine ha assunto un timbro dispregiativo, ma che vuole indicare un insieme di individui privi di una adeguata formazione – l’interesse che l’arte suscita nel ‘grande pubblico’ nasce dalla più o meno inconscia consapevolezza che essa costituisce quel luogo in cui si dà quell’infinitesimo possibile in cui la cosa, l’esperienza della cosa, possa sfuggire all’universale riduzione a merce su cui si modella ogni rapporto nelle nostre società post-industriali. In altri termini, si cerca l’arte (al di là, ovviamente, dello sfoggio di opere o di competenze come simbolo di ascesa sociale) per trovare una momentanea, fugace ‘vacanza’ dalla ripetitività e insensatezza del quotidiano. E tuttavia, l’incontro con l’arte contemporanea suscita in genere sgradite sorprese. Molte opere, per essere ‘comprese’, hanno bisogno di un ‘supporto’, di un corredo concettuale fornito per lo più dall’autore o dal critico. Questo accade, ad es., nell’ambito della pittura/scultura. Oppure in altri ambiti, come in quello teatrale, lo ‘spettatore’ si trova di fronte un’acerba denuncia di quell’insensato-ripetitivo dal quale sperava, anche solo per una sera, di sfuggire.

Questi fenomeni sono stati vissuti, nell’ultimo mezzo secolo, in forme molto diverse nella cultura europea e in quella nordamericana. Com’è noto, dal secondo dopoguerra in poi il centro di gravità dell’arte mondiale si sposta da Parigi a New York. Una fertile relazione, un fitto dialogo tra i due mondi era stata assicurata dalla diaspora degli artisti ‘degenerati’ dai territori occupati dalla Germania nazista verso gli Stati Uniti.
Pure, una certa differenza si è resa visibile e persiste attraverso i decenni. Differenza che profila poi una doppia ‘risposta’ (o meglio: una doppia ‘posizione problematica’) alle questioni che abbiamo per brevi accenni evocate.

In primo luogo, si è potuta notare una diversità nella valutazione della potenza del mercato. Alla diffidenza europea di fronte alla ‘riduzione a merce’, gli artisti americani hanno opposto un approccio più disinibito al successo economico e al riconoscimento pubblico, all’inserimento del prodotto artistico nel sistema più vasto dei consumi entro la sfera dell’‘industria culturale’. Questo getta luce anche su come è per lo più intesa, dall’altra parte dell’Oceano, la questione dei rapporti dell’opera d’arte con la società in cui sorge e con le sue dissonanze5. In parallelo, la grande questione sui confini dell’arte, che in Europa si nutre del rapporto inesausto e perplesso con la tradizione, in America ha visto gli artisti, proiettati in modo più immediato e diretto verso il futuro, concentrarsi sulla specificità-peculiarità delle tecniche e sul loro costante ‘approfondimento’, per così dire, attraverso l’innovazione.

Queste differenze, che occorre necessariamente tener presenti se si vuol comprendere i tratti dell’arte contemporanea, sono probabilmente destinate ad impallidire, progressivamente, entro un quadro più omogeneo. È una omogeneità che convive curiosamente con quella ‘polverizzazione’ di cui parlavamo prima, e che non appare per nulla rassicurante. In primo luogo perché configura un’espansione, un trasfondersi lento ma costante del mood americano in quello europeo – e in quell’orizzonte, pur così vitale, i nodi che abbiamo indicato, più che accennare a sciogliersi, si stringono ancora più strettamente.

Se si osservano questi fenomeni da un punto di vista più generale, ci si accorge di come in Occidente una certa élite, quella intellettuale, guardi sempre più all’arte come all’ultimo luogo in cui possa miracolosamente darsi quell’improvvisa ‘trasvalutazione di tutti i valori’ individuale che non è riuscita, su un piano collettivo, né nell’ambito religioso né in quello ideologico-politico. Ma insieme si mostra – anche per i motivi a cui abbiamo accennato qui – la natura del tutto utopica di questa ‘attesa’.

NOTE:

1 – Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 1978, p. 7.

2 – W. Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere, vol. V, Einaudi, Torino 2003, pp. 539 sgg.

3 – Ho svolto questi temi in Art and experience, in Société. Revue des Sciences Humaines et Sociales, n. 153, 2021/3, pp. 145-157.

4 – Cfr. M. Perniola, L’arte espansa, Einaudi, Torino 2015.

5 – Com’è ovvio, occorre tener conto delle profonde differenze che attraversano una realtà così vasta e complessa come quella nord-americana – difformità e contraddizioni sulle quali non possiamo soffermarci qui.

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