C’è un piacere innegabilmente seducente nel prestare orecchio a quella voce che è disposta a perdere tutto, a perdere Itaca e Telemaco e a (ri)perdere per sempre il talamo intagliato nell’ulivo, ancorato alle sue radici, pur di salpare alla volta delle Colonne d’Ercole. O, certe volte, pur di scattarvi un selfie all’ombra.

Per qualche curiosa ragione, la contemporaneità non rileva come problematico l’investimento pubblico in tecnologie aerospaziali più o meno turistiche a fronte di un Servizio Sanitario Nazionale in cui per ottenere i referti di un esame istologico occorre più del tempo necessario alla neoplasia per divenire metastatica. Ma la Scienza, si sa, non può attendere. «La parola agli esperti» il mantra, l’unica verità che non trova confutazioni neppure nei Talk Show più sanguinosi. Compatta l’opinione pubblica come un sol uomo, emana Decreti-legge, smonta e rimonta su tavoli tecnici il destino delle nazioni più di un lavoratore Ikea.

Oggi l’unica intelligenza meritevole di aspettative, investimenti e desideri sembra essere l’intelligenza tecnico-scientifica, ovvero, logico-matematica.
Ma è sempre stato così?

Nel V secolo a.C. a Atene si è realizzato lo straordinario sviluppo di una forma differente di intelligenza umana. Raggiunto un dato livello di progresso tecnico-scientifico – che ha consentito alla maggioranza della popolazione di pensare a stomaco pieno e con un tetto sopra la testa – sembra quasi che abbiano “deviato” nella storia, gli ateniesi, e riversato su di un altro piano il fervore che aveva consentito quello stesso progresso materiale. Nella relazione e nel dialogo interpersonali, all’ombra dei cortili peripatetici, camminando fianco a fianco almeno in due sono nati il pensiero critico occidentale, la democrazia e la filosofia – scienza inutile per eccellenza.

«La filosofia è quella cosa che, con la quale e senza la quale, si rimane tale e quale» Woody Allen

Poco più in là nello spazio e nel tempo, si potrebbe osservare che qualcosa di non molto diverso è accaduto nella Firenze del XIV secolo. Al progresso scientifico medioevale precedente si devono infatti le invenzioni della rotazione delle colture agricole, dell’orologio meccanico, dei mulini ad acqua, degli altiforni siderurgici, della lavorazione della carta, del compasso e di nuove congetture in geometria. D’altro canto, questa crescita materiale è stata alimentata dall’aumento della domanda e dalla maggiore disponibilità economica dei sopravvissuti alla “peste nera” dello stesso periodo. In quel luogo e in quel tempo circoscritti, hanno vissuto diversi tra i principali geni artistici mai esistiti: Leonardo, Michelangelo, Brunelleschi, Raffaello.

Così come l’ambiente determina l’espressione genica attraverso l’epigenetica, pur non avendo facoltà di interferire con la sequenza genica sottostante, risulta difficile non pensare a quella Firenze – e a quell’Atene – come a un’atmosfera, un ambiente, sui generis. Un humus particolare, che ha giocato il suo ruolo nel determinare in parte la fenomenica dell’umano genio che ivi si andava sviluppando; un humus conosciuto, trasmesso e coltivato dai singoli individui mediante le relazioni e il dialogo interpersonali.

Al contrario oggi, almeno dai tempi della Rivoluzione Industriale, si produce e esporta inarrestabile un progresso tecnico frutto dell’intelligenza logico-matematica che è, però, per antonomasia un’intelligenza al singolare. È l’intelligenza del genio biochimico che veglia alla luce notturna del microscopio, dell’enfant prodige che frequenta la “primina”, di Stephen Hawking, del giovane medico che si laurea in anticipo con una tesi sulle isoforme del recettore m-Glut. Una società di aspiranti intelligenti al singolare, tutti contro tutti, con unica chance di successo nella performance individuale in ambito tecnico-scientifico, che commuove in un colpo solo sia i professori che la nonna venuta dall’Aspromonte, la quale nel frattempo ha ben imparato su Verissimo cosa conta nel terzo millennio.

La corsa nella storia di questo tipo di intelligenza ha avuto conseguenze determinanti nella produzione della realtà contemporanea. Un esempio emblematico sul versante negativo ne è sicuramente la bomba atomica, sviluppata durante il Progetto Manhattan, avviato su impulso di scienziati tra cui Einstein, che sollecitarono il presidente Roosevelt a battere sul tempo la Germania nazista nella sua invenzione. Dal 1940, sotto la guida di Oppenheimer, uno dei più straordinari gruppi di menti scientifiche della storia portò alla realizzazione dell’ordigno entro il 1945. Raggiunto l’obiettivo, gli stessi scienziati compresero di aver creato un mostro. Invano Szilard e altri tentarono di persuadere il governo a riflettere sulle devastanti implicazioni della creatura: la bomba ormai era realtà e non si riuscì a fermarne l’utilizzo.

Il 6 agosto 1945 il presidente Truman ordinò il bombardamento di Hiroshima. Einstein, sconvolto dalla notizia, avrebbe esclamato che, se ne avesse saputo l’esito, non sarebbe mai diventato uno scienziato.

Miope sarebbe, però, utilizzare esempi di catastrofi conseguenti a geniali scoperte o invenzioni per giungere alla conclusione che forse questo tipo di intelligenza sia giunta storicamente a una sua crisi.

Si potrebbe guardare, allora, a una più indiretta conseguenza della società della scienza illimitata. La corsa dell’intelligenza tecnico-scientifica cerca di avanzare lungo una scala ascendente di progresso, reputata illimitata. Nel farlo, è però forse oggi giunta a un paradosso: sebbene abbia conquistato per certi aspetti un crescente benessere, per esempio nella lotta ad alcune patologie infettive o politicamente rilevanti come l’AIDS, sembra inciampare dinanzi a nuove forme di patologia. Giovanissimi con autolesionismo, consumo di sostanze, anoressia, ritiro sociale, idee suicidarie schiaffeggiano quotidianamente la società del progresso e della performance, tengono in scacco genitori e curanti con la minaccia di pugnalare al cuore quei meri contenitori di aspettative e proiezioni che si sentono di essere ai loro occhi.

Per l’Istituto Mario Negri di Milano, centro di ricerca indipendente, negli ultimi dieci anni in Italia il numero di utenti dei Servizi di Neuropsichiatria di Infanzia e Adolescenza è raddoppiato, fino a contare circa due milioni di casi. A un adolescente su sette, nel 2021, è stata fatta una diagnosi di disturbo mentale. La comparsa di queste manifestazioni è sempre più precoce: per l’OMS, il 50% dei disturbi mentali esordisce prima dei 14 anni. Ancora, ogni anno nel mondo muoiono per suicidio 46.000 adolescenti (UNICEF, 2021).

Si desidera da loro bellezza e successo, li si vede già blasonati professionisti, campioni sportivi o milionari self-made men. Nessuno che desideri più un figlio ciabattino, fioraio, o che si preoccupi ancora di insegnargli a relazionarsi in un bar, alle Poste, o a condividere un panino con qualcuno che ne è sprovvisto, o ancora a sporcarsi le mani con la farina o con la terra. Tutti desiderano che il povero piccolo Mario sia il genio della scuola, e poi dell’università.

Ma l’intelligenza di Mario, se risolve equazioni di secondo grado a merenda ma non sa fare amicizia, interesserà, poi, a Mario?
E alla società delle armi di distruzione di massa e dell’intelligenza artificiale priva di regolamentazioni, serviranno davvero altri piccoli Mario ancora?

Provocatoriamente, si potrebbe ipotizzare che l’intelligenza tecnico-scientifica come unica forma meritevole di desiderio privato e di pubblico interesse sia arrivata a un capolinea storico, e che oggi non abbia più senso parlare di intelligenza individuale.

Un domani, a reputarsi «intelligente», potrebbe essere allora soltanto un legame, una relazione, o un gruppo. Si potrebbe sognare così un tipo di educazione finalizzata a coltivare l’intelligenza relazionale, che nel rispetto dei confini di ciascuno miri a coltivare spazi comuni di esistenza, polifonia di tutte le voci coinvolte, riflessività dialogica, ascolto responsivo.

Ma se nel «West», nella società neoliberale patria dell’individualismo, questa idea può assumere connotati ridicoli o grotteschi, diverso potrebbe essere il punto di vista di alcune società appartenenti al «Rest» non occidentale del mondo, così suddiviso dai primi antropologi non senza etnocentrismo. La nozione di persona, infatti, in molte culture è sovra-individuale: presso alcuni gruppi di nativi americani, ad esempio, ciascuno esiste contemporaneamente nel proprio corpo biologico, contenente diverse anime dai peculiari caratteri, e in quello di un «companion animal», alter ego animale, responsabile di ulteriori aspetti della personalità. Per i Nahua del Messico la persona è insieme «iolo», anima che lascia il corpo solo alla morte, per proseguire l’esistenza della persona nell’aldilà, alter ego animale e infine «ecaui», sangue biologico dell’individuo e sua ombra; come l’alter ego animale, l’«ecaui» può anche allontanarsi dal corpo biologico umano, o perdersi. In una siffatta società, ad esempio, quale posto sarebbe riservato al caposaldo di quella che in Occidente è la misurazione quantitativa condivisa del Quoziente Intellettivo? Si dovrebbe forse per paradosso sottoporre al test del QI l’individuo previo accertamento che il suo alter ego non sia in letargo, e che non abbia avuto perdite ematiche recenti.

E ancora, se nel «West» del pianeta la ragione della possibilità del trapianto d’organi sta nel fatto che il centro dell’agency – capacità potenziale di agire in maniera trasformativa sulla realtà esterna – sta nell’encefalo umano, al contrario presso i Nuer dell’alto Nilo studiati da Evans-Pritchard, proprio come la persona, l’agency è sovra-individuale: tra i Nuer anche la colpa di un comportamento commesso nel concreto da un singolo è condivisa tra più individui. Per assurdo, chi dovrebbe andare in un simile caso a processo?

Uscire dalla nozione di persona individuale occidentale per aprirsi a più complesse concezioni di persona, dei suoi modi di esistere, di soffrire e di “essere intelligente”.

Se per secoli l’intelligenza logico-matematica ha guidato il progresso, oggi ci si dovrebbe forse domandare se continuare su questa strada sia realmente vantaggioso, o se si possano spostare almeno in parte le risorse su versanti non utilitaristici e non individualistici della conoscenza.

E così scegliere di fermarsi, proprio come i soldati di Alessandro Magno sulle rive del Gange, per tornare una buona volta a casa, agli affetti. Più che chiedere a Odisseo di rinunciare alle Colonne d’Ercole – ché ne morirebbe – condurlo con gentilezza per mano, a vedere quanto da esplorare ci sia presso la terra su cui il padre Laerte si è ammalato di dolore aspettandolo invano. E anziché ripartire, farsi insegnare dall’ulivo a restare.

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