IL POTERE DELLA PAURA

N. 2 -

Anno 2025

Immaginare una sorta di continuità logica tra un tema e l’altro di questa rivista non era nelle intenzioni della redazione.

Ogni tema nasce da una riflessione condivisa, che è certamente in sintonia con gli umori del momento, ma anche con ciò di cui si parla in città, come dice una trasmissione di Radio3. Ci piace considerarci antenne capaci di cogliere riflessioni e domande che percorrono il nostro mondo e le nostre professioni. In questo caso, bisogna dire, il compito ci è stato reso alquanto semplice. Non c’è stato molto da interrogarsi: il sentimento che domina è lo sgomento, l’incredulità: la sensazione che la “storia” ci abbia sorpresi di nuovo, manifestandosi nella sua forma più tragica e terrifica e lasciandoci nella più assoluta incertezza. Il riferimento è naturalmente a Trump e agli Stati Uniti.

È il mondo nel quale siamo vissuti che scompare, come hanno fatto notare gran parte dei commentatori. Non è solamente l’idea che l’Occidente, inteso come costruzione politica, sia stato frantumato e che l’Europa sia avviata a riarmarsi perché forti soffiano i venti di guerra. Quel che lascia stupefatti, almeno a chi osserva da qui, è che il paese che, con tutte le sue contraddizioni, come raccontava Tocqueville, rappresentava, da più di duecento anni, la democrazia, stia assumendo il volto di quella che sempre più comunemente viene chiamata democratura.

Non è questo il luogo per fare l’elenco delle sortite trumpiane che danno segni evidenti di come si stia andando in questa direzione, ma basterebbe citare le minacce esplicite di annessione di Canada e Groenlandia per rendersi conto del cambiamento culturale profondo cui ci siamo trovati davanti. Certo, nessuno è così ingenuo da pensare che sino a ieri gli Stati Uniti fossero impegnati a esportare la democrazia, prima e dopo la guerra in Iraq. Non credo che qualcuno pensi che le democrazie a cui siamo abituati e a cui siamo affezionati siamo sistemi sociali irenici volti al bene dell’altro; sono spietate arene dove si insegue il potere e la ricchezza, e la democrazia americana lo era in modo addirittura estremo, manifestazione di quella che pare essere, purtroppo, la natura dell’uomo. Ma le regole entro cui tutto questo avveniva, i sistemi di check and balance, le forme, magari un poco borghesi e tartufesche, di esprimersi e di gestire le relazioni, conferivano e conferiscono alle democrazie quell’aspetto rassicurante, che trova nell’espressione “c’è un giudice a Berlino” la sua sintesi più nota. Alla fine arriverà un giudice che ristabilirà il diritto, e il sopruso del più forte verrà sanzionato.

Oggi non ci attendiamo più un giudice a Berlino, e così ci siamo trovati all’improvviso ricacciati nell’hobbesiano stato di natura. Il mondo nel quale chiunque può imporre la propria legge, o almeno ci può provare, basta che ne abbia la forza. È il mondo di Trasimaco. E nello stato di natura, ci dice Hobbes, un sentimento domina incontrastato: LA PAURA.

Hobbes probabilmente aveva ragione. In questo nuovo stato di natura la paura si è fatta molto più ubiqua e intensa. Basti pensare, come già ricordato, che l’Unione Europea stessa afferma che le scelte economiche oggi sono influenzate dalla paura di un possibile conflitto, ragione per la quale è necessario armarsi. 

Alla luce di queste considerazioni, la paura ci sembra tema degno di essere trattato in questo numero. Se poi ci fermiamo a riflettere, ci pare che il fatto che al numero sull’intelligenza segua quello sulla paura costituisca per noi un ulteriore elemento di interesse. Chissà, allora, che la scelta dei temi da trattare non abbia in realtà una sua interna logica.

Magari il tema della paura segue quello sull’intelligenza perché la paura costituisce ciò che si pone come limite dell’intelligenza umana?
E il limite in che senso? Chissà.

Lo scopriremo, forse componendo e scrivendo questo numero della rivista. Certo che la paura, questa emozione primaria, sovente, anche nelle sue forme non patologiche, si presenta come limite all’intelligenza quando ci lascia senza parole e senza capacità di reagire.

“Sono rimasto impietrito dalla paura!”: quante volte abbiamo sentito questa esclamazione. O ancora, il cosiddetto freezing, reazione di terrore che rende inattuabile persino la fuga. Oppure la paura che ci impedisce di attraversare una strada o un ponte: terrore, e di queste forme la lista potrebbe essere praticamente infinita, di fronte a cui qualsiasi rassicurazione o evidenza intelligente nulla può.

Si vuole che la paura ci accompagni sin dalla nascita, basti pensare al trauma della nascita secondo Otto Rank, e forse persino prima, nel ventre materno che, come sappiamo nella vita intrauterina il feto pare fare esperienza di molte e diverse emozioni; così come tendiamo ad interpretare molte delle reazioni dell’infante come vere e proprie crisi di terrore. Quindi la paura è intesa come una sorta di meccanismo fisiologico teso alla salvaguardia dell’uomo (e naturalmente non solo, poiché lo stesso meccanismo è molto diffuso in natura) al servizio dell’evoluzione.

Certamente come meccanismo filogenetico di protezione resta assai impreciso, assai più impreciso ad esempio della nausea che avrebbe significato evolutivamente simile. Potrebbe, forse, essere avanzata l’ipotesi che essa sia, invece, appresa nella lunga neotenia dell’uomo, giocando un ruolo non secondario nei processi educativi. Certamente la paura è stata utilizzata come limite della libertà di azione e di pensiero, come ben sappiamo: il potere si nutre di paura, e la paura è tuttora lo strumento pedagogico considerato, più o meno consapevolmente, più efficace. Anni di pedagogia premiale, che suggerisce l’utilizzo del rinforzo positivo, il premio, che attiva emozioni piacevoli, a quello negativo, la punizione, che attiva l‘emozione della paura, non ne hanno scalzato la centralità, nel pensiero umano.

Ne volete una prova?
L’esuberanza delle politiche cosiddette securitarie. Ovunque si invocano aumenti di pene, per cause più o meno elevate, e laddove non si voglia ridurre tutto questo a mera espressione di vendetta, vogliamo ritenere ci si attenda l’obiettivo un poco più nobile della deterrenza.

Ovvero l’uso pedagogico della paura come freno, limite all’agire umano. Come strumento di controllo di pulsioni individuali a cui il nostro fragile (si fa per dire) Super-Io, o come si direbbe con linguaggio più antico, la nostra debole volontà non sa fare argine. Lo stesso Hobbes confidava nella capacità pedagogica della paura nel convincere l’essere umano a venire a patti con la propria ambizione e la propria volontà di potenza. Meglio qualche rinuncia che una vita spesa nell’incertezza. Anzi, meglio, nella certezza della propria morte. Come se la rinuncia alla violenza salvasse l’essere umano dalla morte, e non fosse solo un incerto procrastinare!

Quindi, dicevamo, la paura come limite, poiché si oppone, in qualche modo, all’azione e al desiderio. D’altra parte, in quanto agente dell’evoluzione la paura è emozione funzionale al vivere, o forse al sopravvivere. È la paura, come afferma Aristotele, nell’etica nicomachea, che distingue il temerario dal coraggioso. È la paura che ci consente di conoscere, per l’appunto, il limite oltre il quale la nostra vita è in pericolo. È per questo motivo che Don Abbondio alla fine ci fa tenerezza con il suo essere vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. È pur un diritto difendere e proteggere la propria vita, e quando l’evidenza della sproporzione delle forze è chiara, meglio la rinuncia alla lotta. Come è ben noto Hegel pone questo meccanismo al centro della dialettica tra servo e padrone: nella lotta per il riconoscimento l’uno riconosce la propria inferiorità e accetta la servitù per salvare la vita. Il discorso di Hegel è estremamente articolato, e così il Padrone “costituisce il suo valore umano rischiando la propria vita. Ora questo rischio è ovunque e sempre, in tutti, il medesimo.” (Kojeve, p. 231).

In questo senso tutti gli eroi son giovani e belli, e di fatto rinunciano alla propria individualità. Mentre   colui che accetta la schiavitù, ovvero chi è costretto al lavoro, proprio per questa ragione trova nella particolarità del proprio lavoro la possibilità di prendere coscienza della sua “personalità”.  Questo sembra un chiarissimo riferimento all’ottusità della violenza, contrapposto all’originalità del pensiero che, trovando il limite, per l’appunto, nella violenza proterva del potere, e fattosi avveduto dalla paura, riesce, direbbero i greci attraverso la metis, a dare senso al mondo e al proprio essere nel mondo. Gli eroi, quello sanno fare: non aver paura e scannarsi l’un contro l’altro armato. Così era nell’Iliade, così oggi nelle guerre che insanguinano il mondo. Ottusa la loro arte, ottusa la loro logica: mors tua, vita mea.  Solo fuori della logica mortifera della guerra c’è la possibilità di pensiero, ovvero di libertà. Ma la libertà mia finisce dove inizia la tua, e alla fine tra Hobbes e Platone, sembrano inevitabili il Leviatano o la casta dei guerrieri che, generando, nuovamente, il sentimento della paura, consentono ad ognuno di non eccedere i propri limiti.

Insomma, torniamo al punto di partenza, la paura è inevitabile e utile: evita che l’essere umano scivoli verso il Prometeo scatenato di cui parlava Hans Jonas. L’uomo senza paura è appunto un uomo che non conosce limiti, anche alla propria capacità distruttiva. “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”, come afferma Ivan Karamazov.

Dio è la fonte della paura, il limite: colui che ci dice No! Non fare.
Molte speranze si sono nutrite sulla possibilità che la parola di Dio potesse fungere da valido argine: purtroppo, come spesso accade con gli uomini, la voce di Dio ha generato paure angosciose e spesso inutili, e non ha frenato azioni terribili. (Questo, per altro, è il rovello costante di Dostoevskij).

La paura dell’inferno può rendere infelice la vita di una persona tormentata dalla propria sessualità e non riuscire a fermare decine di omicidi. Certo non sappiamo se Dio è morto né tanto meno cosa accade in un mondo senza Dio, e tuttavia lavorando clinicamente con la paura è inevitabile coglierne la sostanziale inutilità. Secondo il famoso schema: vedo l’orso, ho paura, fuggo, la paura rappresenta un inutile sentimento spiacevole che nulla aggiunge alla capacità di fuga o di combattimento. La paura è irrazionale e inutile anche quando la nostra vita è realmente in pericolo.

E allora? Cosa auspichiamo? Una sorta di superomismo nicciano? Un uomo “illuminato” tutta razionalità?

Sarebbe tutto sommato più facile finire ponendo in rapporto paura e umanità: la dimensione di fragilità, così profondamente umana, è quella che dà senso e alimenta la paura e che ci rende sensibili e empatici. E così ci piace immaginare il senso di fratellanza che può generarsi dalla paura; purtroppo sappiamo, come già ricordava Leopardi nella Ginestra, che la realtà rischia di essere molto diversa: la paura pone l’individuo di fronte ad un compito estremo, quello di salvarsi e, in quel momento, qualsiasi forma di compassione diviene impossibile. Tutte le energie sono destinate al tentativo di sopravvivere. La paura è uno dei sentimenti a noi più familiari: ci siamo cresciuti, lo abbiamo associato alle persone a noi più care, a partire dai nostri genitori, ci sollecita l’immediata sensazione di essere tornati in una condizione in cui qualcuno deve prendersi cura di noi e salvarci. Eppure, per quanto tutto questo tocchi corde profonde e ci renda la paura qualche cosa di cui forse non sapremmo fare a meno, dobbiamo mantenere alta la capacità di diffidare di questa emozione, sia quando qualcuno la suscita in noi, sia quando ci viene da suscitarla negli altri.

Questo è forse un tempo, come ricordavamo all’inizio di questo articolo, in cui avremo modo sovente di sentire dentro di noi la spiacevole sensazione della paura con il rischio che si generi l’immediata rinuncia alla libertà di pensiero e di critica. È tempo invece di coltivare il gusto e il senso della dissidenza: parola quasi blasfema negli anni ’60 e ’70, almeno negli ambienti della sinistra, poiché evocava quanti sembravano lavorare contro il socialismo reale e a favore degli Stati Uniti d’America. C’è voluto molto tempo per riconoscere piena dignità a quei dissidenti: si pensi tra gli altri a Solgenitsin e Salamov.

Oggi lo scenario è drammaticamente cambiato, non tanto per la Russia, ovviamente, dove la dissidenza la si paga ancora cara, ma per gli Stati Uniti, dove forse è in arrivo un’ondata che appare ricordare il maccartismo, ma in un clima politico e culturale anche peggiore. 

Vedremo quali saranno le forme possibili della dissidenza: certo ci sono dissidenze facili, almeno per noi, intellettualmente, ma magari difficili emotivamente, poiché espongono al rischio della violenza e della rappresaglia; e diffidenze magari più semplici emotivamente, perché non ci attendiamo rappresaglie, ma più difficili intellettualmente, quale quella posta dal tema del riarmo.

La difficile scelta tra le anime belle del pacifismo e i sottili distinguo degli interventisti.

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