É primavera

È primavera e la mimosa non è arrivata a vederla.
È primavera ma copiosi fiocchi scendono sui monti del Mezzogiorno, sfondo di incerti cambi di stagione e pastiere napoletane.
È primavera eppure tutto è cambiato: i colori, la scuola, i profumi, la mascherina, le bollette, l’amore e la guerra. Però, lo stesso, è primavera, e sotto alla terra inzaccherata e impastata di cicche di sigarette resiste quell’insana voglia che sboccia di questi tempi, sinuosa e insolente. Voglia di rivoluzione, di casino, di innamorarsi ancora.

È primavera ma non abbiamo più vent’anni, e allora elaboriamo il lutto che «non è tempo più di bandiere appese»: è venuto il tempo di appendere i quadri alle pareti di una forse casa. Non ne abbiamo però nemmeno quaranta, e magari non abbiamo nemmeno la casa, e allora ci permettiamo ancora il lusso dei dubbi sbagliati, della cornice vuota, dell’abbandono degli studi, di un rigurgito di adolescenza, di credere in un dio; ci permettiamo un licenziamento, o un principio.

Tra la “Famiglia” con la maiuscola e il gender fluid, tra il posto fisso e il blogging, siamo quelli un po’ fuori posto ovunque, e allora un po’ sempre a posto. Abbiamo imparato a reinventarci, riposizionarci, riderci sopra, ballarci dentro: se davvero si può morire sotto le bombe nell’Europa unita o tra i flutti del ventre Mediterraneo, se davvero si può morire di università, tanto vale ballarci sopra finché funzionano le gambe. Abbiamo imparato che è troppo più facile sbagliare, risultare ipocriti, rendersi ridicoli, «credersi assolti», e abbiamo deciso che va bene così, e forse ci piace persino.

E allora, abbiamo deciso che noi non ci rinunceremo, al «nostro maggio». Non è bastato il brutto, il male, a rinunciare alla primavera, non basteranno i dolori a venire.
Questa rubrica sarà uno spazio pieno di domande e nessuna o molto poche risposte, di dubbi feroci e di sogni in grande, senza mai soffocare le ambiguità, le incoerenze, il conflitto. Rubrica quasi del maggio sarà un luogo di cittadinanza e di presenza, alla maniera di Ernesto De Martino, per ciò che cittadinanza e presenza non trova: la tristezza, il brutto, i colori acidi, i denti storti, gli esclusi, la pancia, la psicosi.

E, forse, una cosa sola possiamo prometterla: terremo alto il livello di conflitto, sempre, e proveremo a lasciar cantare voci il più possibile dissonanti. Se è vero che l’assenza di pensiero critico è parte del vuoto che attanaglia l’esistenza nel nuovo millennio, noi di questa nostalgia proveremo a farne pienezza, e a ballarci dentro un tango con casquè.

 

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